11/11/2025
da Pagine esteri
Il Kazakistan aderisce agli accordi di Abramo. La Casa Bianca punta sull’Asia Centrale per accaparrarsi le terre rare e ridurre l’influenza nell’area di Cina e Russia
Dopo anni di relativo disinteresse della Casa Bianca nei confronti dell’Asia Centrale durante l’era Biden, il recente attivismo di Donald Trump nell’area sembra produrre i primi frutti.
Nei giorni scorsi infatti il Kazakistan – il paese più importante dell’area dal punto di vista economico e politico e grande esportatore di gas e petrolio – ha annunciato l’adesione ai cosiddetti “Accordi di Abramo”.
L’ex repubblica sovietica entrerà così a far parte della rete di paesi musulmani che, a partire dall’agosto del 2020, sono stati convinti dagli Stati Uniti a normalizzare le relazioni con Israele in cambio di investimenti e facilitazioni economiche, sommandosi a Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan.
In realtà quello di Astana è un passo poco più che simbolico: il grande paese asiatico, infatti, intrattiene relazioni diplomatiche con Tel Aviv sin dalla sua indipendenza all’inizio degli anni ’90 e soddisfa attualmente il 25% del fabbisogno energetico dello “stato ebraico”. Non è dunque quel “colpaccio” che i toni esultanti dell’annuncio di Trump lascerebbero intendere.
Ma è comunque significativo che l’accordo, che comporterà un ulteriore avvicinamento con Tel Aviv, cada in un momento di grande ostilità internazionale nei confronti di Israele, responsabile del genocidio a Gaza. Anche il regime kazako ha espresso forti critiche nei confronti di Israele, proprio mentre la sua diplomazia preparava nell’ombra l’accordo con Washington e Tel Aviv.
«Questa importante decisione è stata presa esclusivamente nell’interesse del Kazakistan ed è pienamente coerente con la natura della sua politica estera equilibrata, costruttiva e pacifica», ha spiegato il regime di Astana venerdì.
La formulazione utilizzata vuole intendere il pragmatismo con cui il regime kazako intesse alleanze a geometria variabile, ricercando accordi e cooperazione con potenze spesso in contrasto tra loro. Se Astana ha appena annunciato un upgrade delle relazioni con lo “stato ebraico” non rinuncia però a quelle con l’Iran; allo stesso modo, pur approfondendo i rapporti con Washington il Kazakistan mantiene ottime relazioni con la Cina e decenti con la Russia, in nome di una diversificazione tale da bilanciare le pressioni e le influenze dei diversi partner.
È evidente, però, che negli ultimi anni i rapporti con Mosca, a lungo principale partner di Astana, si sono visibilmente ridotti mentre sono cresciuti soprattutto quelli con Pechino e ora con gli Stati Uniti. Sembra passato un secolo da quando, nel gennaio 2022, Putin inviò ad Astana un contingente militare nell’ambito degli accordi del CSTO (l’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva che integra la Russia e varie repubbliche ex sovietiche) per reprimere nel sangue le violente proteste che rischiavano di abbattere il regime di Qasym-Jomart Toqaev.
Paradossalmente, da quel momento Astana ha iniziato ad allontanarsi da Mosca: prima ha condannato l’invasione dell’Ucraina ed ha approvato le sanzioni contro la Russia offrendo ospitalità ai cittadini della Federazione in fuga, poi ha incrementato le relazioni economiche con i paesi occidentali e con la Cina e le esportazioni di idrocarburi verso l’Europa.

Del pragmatismo – e dell’equilibrismo – kazako intende approfittare ora la Casa Bianca, alla ricerca di risorse e soprattutto di terre rare e altri minerali indispensabili per lo sviluppo della sua industria tecnologica e militare, da sottrarre ovviamente ai competitori cinesi (che controllano quasi il 90% della lavorazione di questi elementi), ma anche russi ed europei.
D’altronde l’industria mineraria rappresenta un capitolo fondamentale dell’economia del Kazakistan, pari al 17% del Pil del paese, che è il principale produttore mondiale di uranio e tra i primi dieci esportatori di zinco e rame. Per non parlare della scoperta, annunciata in primavera, di un grande giacimento di terre rare a Karaganda, che potrebbe contenere un milione di tonnellate di cerio, lantanio, neodimio, ittrio e altri minerali.
Nonostante la ricchezza del proprio sottosuolo, però, né Astana né le altre repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale dispongono delle infrastrutture indispensabili per estrarre e lavorare i minerali sui quali si concentra la competizione internazionale. Di qui la necessità di attirare gli investimenti stranieri e la realizzazione delle necessarie infrastrutture.
Aumentando i propri investimenti in Kazakistan Washington non mira soltanto ad affrancarsi dal monopolio cinese sul controllo delle terre rare, ma spera anche di convincere gradualmente Astana e le altre repubbliche centro-asiatiche ad entrare a far parte di un sistema di alleanze alternativo a quello che ruota intorno a Pechino e a Mosca.
È in quest’ottica che va letto lo svolgimento alla Casa Bianca, la scorsa settimana, del secondo vertice “C5+1”, che riunisce Stati Uniti, Kazakistan, Uzbekistan, Kirghizistan, Tagikistan e Turkmenistan allo scopo di promuovere la cooperazione sul piano economico, energetico e minerario.
Se per le cinque repubbliche centro-asiatiche – che aderiscono a formati simili esistenti anche con Mosca e Pechino, allo scopo di vendere le proprie risorse al miglior offerente – il vertice è stato l’occasione per ottenere contratti, infrastrutture e know-how, per Washington ha rappresentato un trampolino di lancio per estendere la propria influenza nell’area a scapito di quelle cinese e russa.
A margine dell’incontro, Washington e Astana hanno annunciato che l’impresa statunitense Cove Kaz Capital Group acquisirà il 70% delle quote (il resto spetterà all’azienda statale kazaka) del consorzio che sfrutterà uno dei più grandi giacimenti di tungsteno finora inutilizzati, per un valore complessivo di un miliardo di dollari.
Washington ha anche ottenuto la vendita di 37 aerei della Boeing alle compagnie aeree nazionali di Kazakistan, Tagikistan e Uzbekistan. Già a settembre Donald Trump aveva portato a casa accordi economici con Kazakistan e Uzbekistan per ben 12 miliardi di dollari, riducendo la distanza con la Cina – che nel 2024 ha investito nell’area ben 40 miliardi – ma superando di gran lunga lo scambio tra repubbliche centro-asiatiche e Russia, fermo l’anno scorso a 4 miliardi.

