Avevo incontrato Elyakim Ha'etzny verso la fine degli anni '90. Era uno dei fondatori del Gush Emunim, il Blocco della fede, il primo movimento nazional-religioso di estrema destra dei coloni. Ha'etzny aveva costruito Kiryat Arba, uno degli insediamenti più ideologici e radicali nei Territori occupati palestinesi.
Da lì Baruch Goldstein, nel febbraio 1994 era sceso nella vicina Hebron; era entrato nella moschea al-Ibrahimi nelle tombe dei Patriarchi con la divisa da ufficiale medico e il fucile-mitragliatore d'ordinanza, e aveva ucciso 29 palestinesi in preghiera. Goldstein era emigrato in Israele nel 1983. Era nato a Brooklyn, dove era diventato un seguace di Meir Kahane, un rabbino razzista, fondatore del movimento religioso sionista Kach. Negli Stati Uniti e in Europa era un'organizzazione terroristica.
Stavo scrivendo il mio primo libro sul conflitto fra israeliani e palestinesi (“L'ulivo e le pietre”, Marco Tropea 2002), e avevo pensato che Ha'etzny fosse un personaggio significativo per la storia che pensavo di raccontare. Mi parlò per più di un’ora citando Abramo, Isacco e Giacobbe per spiegare quanto attuale fosse il diritto israeliano di possedere Hebron. Voleva dimostrare il profondo legame culturale e politico fra Inquisizione, i Protocolli dei saggi di Sion, i pogrom russi, il caso Dreyfus, Goebbels e Yasser Arafat. Aveva impegnato la sua vita, quella della sua famiglia e di molte altre persone per un ideale decisamente eccessivo e rischioso.
Fino al 1967 Ha'etzny faceva l'avvocato a Tel Aviv - aveva anche votato laburista - e la Cisgiordania era parte del regno hashemita di Giordania. Poi era scoppiata la guerra dei Sei Giorni. Re Hussein era stato convinto da Gamal Nasser a partecipare a una vittoria venduta per certa. Fu sconfitto anche lui con egiziani, siriani, iracheni e libanesi. Gli israeliani conquistarono Gerusalemme Est e l'intera Cisgiordania, la penisola egiziana del Sinai e il Golan siriano. Le dimensioni territoriali dello stato d'Israele si erano d'improvviso quadruplicate.
Ha'etzny rimase folgorato “dalla grande opportunità storica”: dopo un'attesa di duemila anni il popolo ebraico poteva tornare nelle antiche terre di Giudea e Samaria “rimaste deserte in attesa del nostro ritorno”. Che in realtà fossero abitate dagli arabi da decine di secoli, per lui era un dettaglio irrilevante.
Scendendo da Kiryat Arba nella città vecchia di Hebron, ero andato a incontrare anche David Wilder, il portavoce della comunità ebraica della città: una piccola colonia di 400 persone nel cuore di Hebron, fra le tombe dei Patriarchi e il vecchio suk palestinese, chiamata impropriamente Beit Hashalom. Significa casa della pace. David ci viveva con la moglie, i sette figli e, fino ad allora, sette nipoti. “La mia è una delle famiglie meno numerose. Le altre hanno 12-14 figli”, aveva spiegato.
Era emigrato dal New Jersey nel 1974, poco dopo la guerra del Kippur. La sua spiegazione di un cambiamento di vita apparentemente così incomprensibile, era invece molto semplice. Almeno lo era per lui: “Le risulta che Gerusalemme o Hebron siano menzionate dal Corano?”.
Alla fine dell'incontro con Ha'etzny, su a Kyriat Arba, gli avevo chiesto cosa avrebbe fatto se nel '67 Hussein non fosse caduto nell'inganno di Nasser, restando fuori dalla guerra e continuando a governare la Cisgiordania. “Niente”, aveva risposto. “Non avrei smesso di fare l'avvocato a Tel Aviv”.
Pochi altri incontri mi fecero capire il sottile veleno che l'occupazione stava propagando nel sangue d'Israele. In quei giorni Yesha Report, il giornale dei coloni spiegava quanto non fosse “ancora chiaro a molti che il nazionalismo ebraico è unico in virtù della verità della profezia ebraica e del legame della Nazione con il Creatore dell'universo”. Un ventennio più tardi, pretendendo di far rinascere fra Siria e Iraq il califfato originale del VII secolo, l'Isis non avrebbe saputo teorizzare meglio il suo rapporto tra fede e ambizioni territoriali.
Sono passati almeno 25 anni dall'incontro con Ha'etzny e da allora il pericolo che le sue idee e i suoi comportamenti rappresentavano, è diventato una solida realtà d'Israele. Gli oltre 700mila palestinesi dell'area urbana di Hebron, a sud di Gerusalemme, vivono segregati dai pochi ebrei protetti dalle forze armate, che pretendono di vivere lì perché lo dice Dio. Se vi fanno entrare a Kyriat Arba che domina Hebron come un fortilizio (oggi i coloni non sono più così ospitali come Ha'etzny), potete visitare la tomba-monumento di Goldstein. Migliaia di coloni ci vanno in pellegrinaggio. Molti, non solo loro, lo celebrano come un eroe nazionale.
In nome di questa visione del mondo “sono pronti a mettere in pericolo la sicurezza dello Stato e la sua stessa esistenza. Intanto stanno minando la fiducia nelle istituzioni”: oggi il movimento dei coloni è diventato una chiara e presente minaccia per la stabilità d'Israele. Lo sostiene Ronen Bar, il capo dello Shin Bet, i servizi segreti interni: l'uomo e l'istituzione che hanno il compito di proteggere Israele.
Bar lo ha scritto in una lettera a Benjamin Netanyahu e al suo governo. Le aggressioni dei coloni nei villaggi palestinesi, ricorda Bar, stanno anche minando la credibilità di Israele fra i suoi alleati negli Stati Uniti e in Europa. Mettono a rischio l'amicizia con i paesi arabi in pace con lo Stato ebraico.
La definizione di coloni non è del tutto corretta: la maggioranza relativa degli israeliani che vivono nei territori occupati palestinesi non milita nelle organizzazioni nazional-religiose. Abitano in quei luoghi per motivi economici. Tutti i governi israeliani, di destra e di sinistra, hanno sempre incentivato il trasferimento nei territori: mutui a tasso zero, zero oneri di urbanizzazione, affitti calmierati. Vivere in molte colonie significa avere aria pulita, piscina, campi sportivi, strade per soli ebrei per raggiungere il posto di lavoro dentro i confini riconosciuti d'Israele.
Raramente lo Stato ha cercato di fermare il movimento delle colonie. Nel 1992 a Washington, l'israeliano Yitzhak Rabin e il palestinese Yasser Arafat avviarono il così detto processo di pace di Oslo, scambiandosi due lettere. In quella israeliana non c'era nessun riferimento alle colonie ebraiche nei territori occupati. Negli otto anni successivi il loro numero sarebbe raddoppiato, nonostante un processo di pace in corso.
Oggi, ormai, sono i movimenti estremisti, protetti dai loro partiti alla Knesset, il Parlamento, e ora anche al governo, che definiscono ruolo politico e moltiplicazione degli insediamenti.
Nel 2005, quando avevo seguito lo smantellamento delle colonie ebraiche di Gaza, gli abitanti avevano svolto un'opposizione quasi passiva. A dare loro un aiuto, dalle colonie in Cisgiordania erano scesi i “ragazzi delle colline”. Erano qualcosa di simile ai Talebani afghani: studenti male educati ma indottrinati, leggevano solo testi religiosi. Ma avevano già seguito corsi pre-militari. Tuttavia nessuno tentò di sparare ai soldati incaricati di evacuarli.
Oggi, come ha scritto Ronen Bar, è tutto cambiato. I “ragazzi delle colline” sono adulti, meglio armati, si arruolano dei reparti speciali dell'Esercito e sanno sparare bene. Hanno educato allo stesso modo i loro figli, la nuova generazione dei “ragazzi delle colline”. Il “terrorismo ebraico” - così lo chiama Bar - è passato “dal dedicarsi alle attività segrete a quelle alla luce del sole; da un accendino all'uso di armi da guerra: a volte facendo uso di armi distribuite legalmente dal governo”. Un tempo cercavano di sfuggire alle forze di sicurezza israeliane, ora le attaccano: quando non sono i militari che partecipano alle loro violenze, perché il male che rappresentano è contagioso.
L'accusa più grave di Bar è che un tempo questi estremisti erano distanti dall'establishment nazionale: “Ora da certi rappresentanti di questo establishment vengono legittimati”.
Il problema infatti è che la denuncia del capo dello Shin Bet è stata inviata al responsabile politico di tutto questo: Benjamin Netanyahu. E ai principali leader dei “terroristi ebrei”: Itamar Ben Gvir, ministro della Sicurezza Nazionale (nientemeno) e Bezalel Smotrich, titolare alle Finanze (delle quali capisce poco) con un ruolo ministeriale anche alla Difesa. Qualche settimana fa Ben Gvir ha dichiarato il suo desiderio di costruire una sinagoga sulla spianata del Tempio, il terzo luogo più sacro dell'Islam dopo Mecca e Medina. “Spesso mi dicono che la leadership politica è contro” questa idea, ha sostenuto Ben Gvir. “Il leader politico sono io. E la leadership politica permette agli ebrei di pregare sulla spianata”.
Questa è la realtà con la quale Israele dovrà confrontarsi se e quando finirà la guerra di Gaza. Gli estremisti hanno forzato i cancelli del potere, se ne stanno impadronendo: controllano sempre di più la polizia, la burocrazia, impongono leggi. Spesso i militari mandati a dividere coloni e palestinesi partecipano all'aggressione dei primi contro i secondi; guardie carcerarie seviziano i detenuti palestinesi; soldati riservisti a Gaza fermano gli aiuti per i civili.
I vertici militari e della sicurezza ancora rispondono a uno Stato e a valori che i coloni e una parte importante della classe politica ormai disprezzano. Ma cosa accadrà quando, in un rapido processo politico-demografico, un ex “ragazzo delle colline” diventerà comandante in capo delle forze armate israeliane?
Immagine in anteprima: frame video Hindustan Times via YouTube
23/09/2024
da Valigia blu