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«Il piano Draghi è innestato su un modello economico che ha fallito»

«Il piano Draghi è innestato su un modello economico che ha fallito»

Intervista ad Anna Fasano, presidente di Banca Etica, sul mastodontico piano di rilancio economico presentato da Mario Draghi

L’ex presidente della Banca centrale europea nonché ex presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, ha presentato un corposissimo rapporto alla Commissione europea. Un piano dettagliato per garantire il rilancio economico dei Ventisette, centrato sulla competitività del sistema imprenditoriale e industriale, ma soprattutto sulla necessità di investire cifre gigantesche: 750-800 miliardi di euro all’anno, per poter seguire il passo di Stati Uniti, Cina, India. Una mole immensa di denaro che, secondo Draghi, dovrà essere utilizzata anche per decarbonizzazione e transizione energetica.

Ma lo stesso economista sembra subordinare tali obiettivi alla necessità di garantire che per le imprese ciò non costituisca un «fardello troppo oneroso», in termini sia finanziari sia burocratici. Stesso discorso per la due diligence, ovvero la responsabilità delle aziende di monitorare sul rispetto dei diritti umani e dell’ambiente lungo le loro filiere. Anche gas, nucleare e cattura e stoccaggio di CO2, nonostante tutti i loro limiti e rischi, sono parte integrante dello stesso piano. E, senza sorpresa, la richiesta è di far affluire anche enormi quantità di capitali al settore militare. Insomma, i punti positivi del rapporto – a partire dalla necessità di agire e di farlo insieme in Europa, fino alla riscoperta del ruolo dei poteri pubblici – appaiono controbilanciati da un’impostazione di base che appare, almeno in alcuni aspetti, conservatrice. Secondo Anna Fasano, presidente di Banca Etica, «il piano presenta anche punti condivisibili ma, di fatto, si innesta su un vecchio modello di sviluppo, che ha fallito».

Draghi constata una cosa abbastanza evidente, cioè che l’Europa è in una crisi esistenziale e che servono investimenti enormi, pari al triplo del Piano Marshall. Si tratta quindi in primo luogo di una conferma di una crisi in atto e di una critica al “disimpegno” dei poteri pubblici in materia economica.

Ci sono due piani, in questo rapporto. Uno è quello della lettura della fase di crisi, che è nota e anche in larga parte condivisibile. Il secondo è quello delle proposte e trovo importante che si sottolinei la necessità che i Paesi dell’Unione europea affrontino questa crisi in maniera coesa, cosa fin qui tutt’altro che scontata nella pratica. Draghi ha voluto richiamare alla necessità di agire in modo unito. Manca una politica in questo senso. E, se pensiamo che in Italia siamo concentrati sull’autonomia differenziata, è difficile immaginare che ci si possa percepire come parte di qualcosa più grande, anche in termini economici. 

Da un punto di vista economico, è giusto che la competitività sia il primo obiettivo?

Io credo che serva non solo essere in competizione ma anche dialogare, anche con i poteri “emergenti”. Qui sta probabilmente il nervo scoperto del piano di Draghi. 

Il documento sembra privilegiare innanzitutto le necessità delle imprese e, di fatto, subordina tutto al non nuocere a competitività e crescita.

Da questo piano emerge una visione, un modello in cui la finanza etica (come tante altre realtà dell’economia sociale) non si riconosce. Quello di Draghi non è un approccio innovativo. Si punta molto sull’innovazione come strumento, cosa anche questa ovvia e scontata, però poi si innesta tutto su un modello di sviluppo che è quello che ci ha portati alla situazione attuale. Un modello che non è messo in discussione solo dalla finanza etica, ma anche da numerosissimi economisti. Penso ad esempio a Stiglitz e all’idea che l’economia debba essere al servizio della società, non viceversa. 

Rischiamo passi indietro rispetto agli impegni ambientali, sociali e climatici europei?

Il piano proposto da Draghi tradisce tutto l’impegno messo dall’industria e dai mercati in direzione della sostenibilità. Lo fa ponendo competitività e sostenibilità in contrasto, come se una nuocesse all’altra. Certo, in alcuni passaggi si spinge l’acceleratore nella direzione della transizione green, ma nella visione d’insieme sembra che la sostenibilità, l’inclusione sociale, la riduzione delle disuguaglianze siano considerati prima di tutto come dei costi. Non è così per la finanza etica. Ma non è così, come detto, nemmeno per molti economisti, alcuni dei quali Premi Nobel.

Esistono tra l’altro innumerevoli studi che spiegano che la decarbonizzazione rappresenta un’opportunità di crescita straordinaria.

Assolutamente. Così come sappiamo che il mondo dell’industria è un mondo sempre più tecnologico e sempre meno capace di creare occupazione. Tantomeno buona occupazione. Rischiamo di scivolare nella visione di un’Europa coesa, che deve innovare, sburocratizzare e, però, lo fa per i motivi sbagliati. Cioè partendo dall’idea che sarà l’industria a salvarci, mentre ci sono molti studi ed economisti che dicono che non sarà così, soprattutto con il sistema industriale che abbiamo costruito negli ultimi anni. Rischiamo di mettere la retromarcia abbandonando moltissimi passi avanti fatti finora, anche con fatica.

Tra l’altro, le regole europee in materia di sostenibilità ambientale e sociale sono state criticate da alcuni perché troppo poco stringenti. Il messaggio del piano Draghi è che anche queste regole sono comunque “troppo”?

C’è una lettura troppo settoriale che dipende anche dagli interlocutori che si sono scelti per la redazione di questo testo. La realtà è che fare marcia indietro ora sarebbe anche antieconomico. Sicuramente ci serve un riordino normativo. Soprattutto in ambito sociale c’è un proliferare di norme, dalla Due diligence alla Sustainable Finance Disclosure Regulation, che rendono complicato orientarsi anche per le aziende. Così, quando invochiamo la necessità di una tassonomia sociale, ci viene risposto che non serve perché ci sono già un sacco di norme. È vero, ma non serve annacquare ulteriormente qualcosa che è già annacquato. Ciò che occorre è un riordino normativo.

Draghi probabilmente risponderebbe che così perdiamo strada rispetto ai competitor internazionali.

Ma se di fronte a noi ci sono Cina e Russia, che non hanno alcun interesse a rispettare determinati standard, la risposta di un piano su cui si è lavorato oltre un anno non può essere «allora facciamo quello che fanno loro». Torno nuovamente a Stiglitz: per ottenere migliori performance economiche non dobbiamo abbassare gli standard, ma diminuire le disuguaglianze. Il punto è sempre questo: si propone un modello che abbiamo già visto. E che ha fallito. 

Eppure, nel momento in cui si ammette di fatto che per competere con Cina, Stati Uniti o India occorre giocare al ribasso sulla responsabilità sociale e ambientale, non si sta in realtà ammettendo implicitamente che il sistema economico è sbagliato?

Ci sono alcune contraddizioni in questo piano. Da un lato ci sono aspetti che io trovo positivi, come il fatto di lavorare sulla formazione delle persone lavoratrici in modo tale che nessuno resti indietro. Oppure il fatto di schiacciare l’acceleratore sul tema della decarbonizzazione, del rafforzamento del supporto alle imprese in termini di efficienza che non vada a scapito della parte sociale. Ma tutto questo, secondo me, si concilia poco con altre parti del piano. E con la visione di fondo. Insomma, è difficile dare una lettura univoca del piano Draghi: ci sono visioni condivisibili, ma le declinazioni sembrano dirette verso strade già note. Se diciamo che dobbiamo rafforzare i diritti dei lavoratori, la formazione, l’inclusione e poi diciamo che dobbiamo adeguarci alla Cina, ci infiliamo in una contraddizione insanabile.

C’è poi una domanda che occorrerebbe porsi a monte di tutto: 750-800 miliardi di euro all’anno sono una cifra semplicemente gigantesca. Dove verranno reperiti tutti questi soldi? 

Nel piano questo punto è molto vago, ma possiamo trovare un po’ di chiarezza nella visione sottostante. L’idea è sempre la stessa: incentivare le industrie affinché producano Pil e, così facendo, contribuiscano al reperimento delle risorse. Prendiamo il settore della difesa, su cui il piano si concentra molto. Intanto, non è vero che l’industria militare sia il luogo dell’innovazione, così come non è vero che la ricchezza che produce vada a beneficio della società. La realtà è che ad arricchirsi sono solo alcuni. Sono capitali che finiscono nel circuito della finanza e della speculazione, non dell’economia. Ma detto ciò, nella visione di fondo del piano di Draghi c’è la vecchia idea che rafforzando alcuni comparti industriali produrremo ricchezza per tutti. E non mi rassicura molto l’idea di pagare la sanità coi soldi delle tasse prodotte con le armi. 

Più in generale, un conto è se si decidesse finalmente di tassare ultra-ricchi, multinazionali o transazioni finanziarie, o lottare seriamente contro l’evasione fiscale. Un conto è se si decidesse di alzare l’Iva…

Visto che le competenze messe in campo per elaborare questo rapporto sono molto elevate, forse c’è qualcosa di non scritto in questo documento. Combattere seriamente l’evasione fiscale sarebbe già di grande aiuto, soprattutto in Italia. Eppure il piano Draghi di paradisi fiscali non parla, benché l’Europa ne sia piena.

Proprio in materia di difesa, il piano sembra proporre un canale privilegiato di finanziamenti per l’industria delle armi, anche attraverso lo snellimento di procedure di accesso ai fondi europei, compresi quelli della Banca europea per gli investimenti. 

Questo è un modo di snaturare la BEI. Allora meglio la proposta di Guido Crosetto di istituire una banca delle armi: almeno si sa in cosa si sta investendo e non si snaturano altri strumenti! Questo porre l’accento sui finanziamenti alle armi dipende dalla paura di un possibile attacco all’Europa, eppure la storia ci insegna che la pace non si costruisce con le armi. Aumentare la produzione di carri armati o missili può produrre solo morte. E i benefici economici saranno affare di pochi. Senza contare che di armi ne abbiamo anche troppe, soprattutto se pensiamo a quelle nucleari. Bisognerebbe chiedersi se i cittadini europei si riconoscono in questo tipo di investimenti. Quando si alimenta un clima di paura, l’unica risposta che trova terreno fertile è la corsa al riarmo. Ed è preoccupante che non si apra un dibattito politico europeo su questo.

Immaginiamo che il piano fosse applicato alla lettera. La finanza etica si ritroverebbe isolata?

La finanza etica non è al centro del piano politico attuale. È però un luogo di dialogo e in questo Banca Etica, ad esempio, non è isolata, così come le altre banche etiche europee e tutti quei soggetti dell’economia sociale che guardano a strumenti e percorsi diversi. Certo, nessuno aveva l’ambizione di trovare le parole “finanza etica” nel rapporto di Draghi, ma per lo meno che ci fossero dei riferimenti a una visione di questo tipo sì. Teorie economiche, pensieri e realtà già esistenti. Quindi, credo che in questo la finanza etica non sia per nulla sola. Necessita però di coesione per portare un pensiero diverso e obbligare l’Europa a dialogare con l’economia sociale, che rappresenta anche un mercato da cui non si può prescindere.

18/09/2024

da Valori

Claudia Vago

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