18/10/2025
da Il Manifesto
Poco e niente. Meloni e Giorgetti presentano una manovra pienamente addomesticata alle nuove regole di bilancio europee
Il governo dei sovranisti pentiti continua il suo percorso rieducativo. Meloni e Giorgetti presentano una manovra pienamente addomesticata alle nuove regole di bilancio europee. L’effetto, guarda caso, rievoca le antiche bizzarrie dell’austerity: con la crescita vicina allo zero e i rischi di una nuova crisi all’orizzonte, anziché bilanciare con una manovra espansiva l’Italia si impegna a schiacciare ulteriormente il deficit annuale.
La stretta porterà almeno un calo del debito pubblico accumulato? Difficile è dir poco. La Bce non è più accomodante come un tempo, i tassi d’interesse al netto dell’inflazione sono tornati a mordere e l’onere finanziario sta risalendo. Si riaffaccia così il paradosso dell’assurdità dei sacrifici: il paese stringe la cinghia ma i conti pubblici continuano a peggiorare.
Qualcuno obietterà che Meloni e soci hanno almeno pensato alle buste paga. Il governo riduce l’aliquota fiscale intermedia al 33 percento. Inoltre, per compensare l’inflazione, detassa al 5 percento gli incrementi salariali che verranno dai nuovi contratti e nelle bozze lascia intravedere l’ipotesi di un piccolo aumento forzoso in caso di mancati rinnovi. Il Corsera l’ha ardimentosamente interpretato come un “ritorno alla scala mobile”. E qualche gendarme di Confindustria ha persino agitato lo spettro di una “spirale inflazionista”. Messo così, pare l’annuncio di un nuovo corso a Palazzo Chigi, più di lotta che di governo.
Ma qual è l’ammontare effettivo dei benefici annunciati? Pochi calcoli rivelano l’entità del provvedimento. A titolo di esempio, prendiamo uno stipendio netto di 1600 euro. Anche ipotizzando un repentino rinnovo contrattuale e applicando gli sgravi fiscali previsti, il vantaggio atteso si potrebbe aggirare intorno ai 15 euro al mese. Per l’esecutivo aiuterebbero a coprire l’aumento dei prezzi. Il guaio è che negli ultimi anni l’inflazione ha mangiato oltre 200 euro mensili di quello stesso stipendio. Le misure del governo, dunque, non arrivano a compensare nemmeno il 10 percento del crollo del potere d’acquisto. Analogo destino subiranno le pensioni minime, che dopo esser state falcidiate dall’inflazione riceveranno poco più di 10 euro netti.
Altro che scala mobile. Siamo al cospetto di oboli, elemosine di Meloni gettate in un angolo di strada. Con simili cifre, l’unica vera spirale è verso la povertà, come da tempo rimarca l’Istat.
La tendenza oltretutto si cumula con l’obbligo di restare al lavoro più a lungo. Il freno all’aumento dell’età pensionabile è sparito dai radar della manovra. Si andrà a 68 anni e si intravede ormai la soglia dei 70. Da noi, l’effetto delle lotte francesi non si avverte.
Con salari al palo e prezzi in ascesa, i profitti delle imprese italiane sono aumentati in modo rilevante. Eppure il governo continua a blandirle con una politica di sussidi e detrazioni i cui reali effetti sugli investimenti sono ormai avvolti in una nuvola di mistero. L’anno prossimo gli imprenditori godranno di altri 4 miliardi di agevolazioni. E quelli che hanno debiti col fisco potranno godere della quinta rottamazione delle cartelle esattoriali, senza pagare sanzioni.
Grazie a misere retribuzioni, generosi sussidi pubblici e un fisco indulgente verso chi evade, gli imprenditori italiani continueranno dunque a vivacchiare senza bisogno di impegnarsi nell’innovazione e nell’aumento di produttività. Pur sotto i nuovi vincoli europei, il governo Meloni mantiene in vita una sorta di “populismo dei padroni”. Con effetti deleteri per l’efficienza produttiva.
Resta l’arcano degli investimenti pubblici. Il gioco delle tre carte consiste nell’azzerarli, mettendo tutto in capo al Pnrr europeo. Ma questo ormai è in via di esaurimento. Ancora un anno o poco più e tornerà l’enorme problema della spesa in conto capitale. E del prosciugamento delle competenze pubbliche necessarie a pianificarla in modo efficiente.
Nel tempo della riaffiorante quaresima resta una sola voce di spesa che ancora festeggia il carnevale. E’ quella destinata agli armamenti. Appena l’Italia uscirà dalla procedura per deficit eccessivo, il governo conferma l’intenzione di chiedere 15 miliardi all’Ue per il riarmo. Come stabilito dalle nuove regole europee, l’incremento di spesa militare sarà calcolato in deroga ai vincoli. Ma si tratta comunque di prestiti, a tassi che si annunciano tutt’altro che risibili. L’hanno spostato in avanti per dare l’illusione di un riarmo senza oneri. Ma in prospettiva è sempre al welfare che toccherà pagare il conto.