Cosa significa l’antifascismo oggi? Lo abbiamo chiesto a Davide Conti. «Lottare per l’applicazione integrale della Costituzione, contro il tentativo di suo stravolgimento (dal premierato all’autonomia differenziata) è uno dei punti da cui partire - dice lo storico - riprendendo il conflitto democratico»
Murale di Orticanoodles a Milano, con i volti di Sandro Pertini, Teresa Noce, Umberto Terracini, Camilla Ravera, Giuseppe Di Vittorio e Teresa Mattei
Nel nostro incerto tempo presente il modo migliore per conferire un orizzonte di senso compiuto all’anniversario dell’insurrezione nazionale del 25 aprile 1945 come data fondativa del nuovo Stato italiano (che diverrà Repubblica il 2 giugno 1946 con il voto popolare) non è certo quello della retorica celebrativa.
Le donne e gli uomini della Resistenza hanno sempre insistito sulla necessità di utilizzare quel lascito storico come chiave interpretativa per comprendere cosa fosse stato il fascismo nella sua identità economico-sociale e politico-culturale nonché quali e quanto profonde fossero state le sue radici dentro il corpo della nazione italiana. Su questo concetto tornavano spesso, negli ultimi anni della loro vita, comandanti partigiani come Rosario Bentivegna (Gruppi di azione patriottica di Roma e Brigate Garibaldi in Jugoslavia) o Massimo Rendina (Brigate Garibaldi in Piemonte).
Era la loro capacità di cogliere le fragilità sociali, civili e culturali della società italiana a spingerli ad indicare quella strada come la principale eredità da valorizzare della guerra di Liberazione. Come se prima ancora di solennizzare l’epica resistenziale fosse indispensabile capire i motivi per cui l’Italia fosse giunta alla dittatura terroristica, alle guerre coloniali, alle leggi razziali, alle aggressioni militari nei Balcani e al «Patto d’acciaio» con i nazisti.
Alla fine della prima guerra mondiale il fascismo si presentò come un fenomeno eversivo inedito, esprimendo caratteri peculiari che trovarono nella nostra società (e non altrove) le condizioni per l’avvento al potere di un regime reazionario per la prima volta strutturato su base di massa ovvero in grado di raccogliere un largo consenso in tutti gli strati della società nazionale.
Un favore cui fece eccezione la classe operaia che alla Fiat di Torino accolse sempre con malcelata ostilità le visite di Mussolini nel 1932, 1934 e 1939 e che con gli scioperi del marzo 1943 e del marzo 1944 (sotto occupazione nazista) impresse un segno indelebile a quella che sarebbe stata la Liberazione.
Il fascismo fu senz’altro quella «autobiografia della nazione» descritta da Piero Gobetti, caratterizzata dall’arretratezza culturale e politica del Paese e dalle aporie strutturali del suo processo di unificazione nazionale. Insieme fu anche espressione di quel «sovversivismo delle classi dirigenti» indicato da Antonio Gramsci il cui esito venne preconizzato dallo stesso fondatore del partito comunista sulle pagine de L’Ordine Nuovo il 21 luglio 1921: «Esistono oggi in Italia due apparecchi repressivi e punitivi: il fascismo e lo Stato borghese.
Un semplice calcolo di utilità induce a prevedere che la classe dominante vorrà ad un certo punto amalgamare anche ufficialmente questi due apparecchi. Avremo allora il “colpo di Stato”».
Lontano dall’essere una «parentesi» della nostra vicenda storica (come invece sostenne Benedetto Croce) il fascismo prese forma grazie alla postura di significative componenti della società e rimase, seppur in modo carsico, una costante anche nel secondo dopoguerra, collocandosi – affermò Aldo Moro nel 1962 – «là dove sono privilegi che non vogliono cedere il passo alla giustizia, là dove sono angustie mentali, egoismi e chiusure, là dove si teme la libertà, là dove ci si affida incautamente alla illusoria efficacia risolutrice della forza».( Vedi il libro di Davide Conti, Fascisti contro la democrazia, Einaudi, ndr).
Questi elementi riemersero già all’indomani della fine della seconda guerra mondiale nel quadro della transizione italiana dal fascismo alla democrazia, grazie alla «mancata Norimberga italiana» ed alla «continuità dello Stato».
La prima garantì (per ragioni geopolitiche legate alla guerra fredda che incardinava l’Italia come avamposto anticomunista dell’Alleanza Atlantica) ad oltre mille criminali di guerra, appartenenti al regio esercito e alle camicie nere, iscritti nelle liste delle Nazioni Unite di evitare i processi per le fucilazioni, le deportazioni, le torture, le devastazioni e le violenze perpetrate nei confronti delle popolazioni civili in tutti i Paesi occupati e invasi dal dittatura di Mussolini (Albania, Grecia, Jugoslavia, Urss, Francia, Libia, Etiopia).
La seconda emerse dal fallimento dei processi di epurazione e defascistizzazione delle istituzioni dello Stato, consentendo il mantenimento nel proprio ruolo di tutto il personale amministrativo, militare, giuridico e ministeriale che aveva servito il regime.
Molte di queste figure diverranno protagoniste di episodi tragici dell’Italia repubblicana. Ettore Messana e Ciro Verdiani, ovvero gli ex questori della città di Lubiana occupata dagli italiani, saranno indicati nella sentenza del Tribunale di Viterbo del 1953 sulla strage di Portella come i due capi dell’Ispettorato di pubblica sicurezza in Sicilia in stretti rapporti con il bandito Salvatore Giuliano e gli uomini della sua banda che realizzarono l’eccidio dell’1 maggio 1947.
Giuseppe Pièche, capo della III sezione del controspionaggio del Servizio informazioni militari fascista fu vice-comandante generale dell’Arma dei carabinieri e responsabile delle schedature di massa del casellario politico centrale contro i dissidenti. Nel 1941 venne inviato in Jugoslavia ad organizzare la polizia politica dei criminali croati degli ustascia. Passata indenne l’epurazione, nel 1970 sarà coinvolto nel golpe Borghese (poi assolto) mentre suo figlio Augusto (anche lui ufficiale del Sid) sarà tra gli organizzatori del viaggio, dell’aprile 1968, dei fascisti di Avanguardia nazionale e Ordine nuovo nella Grecia dei colonnelli da cui torneranno istruiti alle tecniche eversive deflagrate nelle stragi di Piazza Fontana a Milano (1969), di Piazza della Loggia a Brescia e del treno Italicus (1974).
La continuità dello Stato, in nome dell’anticomunismo, determinò il congelamento dei principali istituti democratici previsti dalla Costituzione repubblicana: la Corte costituzionale prese forma nel 1956 (primo presidente Gaetano Azzariti ovvero l’ultimo presidente del tribunale della razza fascista); il Consiglio superiore della magistratura nel 1959, la riforma del sistema dell’istruzione nel 1969; le regioni e lo statuto dei lavoratori nel 1970; il referendum e la legge sul divorzio nel 1974; il servizio sanitario nazionale e la chiusura dei manicomi nel 1978; la riforma dello diritto di famiglia nel 1981; l’introduzione del reato di tortura nel codice di procedura penale nel 2014. Al decennio del congelamento (1945-1955) subentrò, sotto la spinta dei movimenti operaio, giovanile e delle donne, quello dell’applicazione costituzionale (1968-1978) che fornì al Paese la più grande estensione dei diritti mai raggiunta.
Il mandato che era stato assegnato dalla Resistenza alla Costituzione trovò finalmente esercizio e con esso l’assunzione dei paradigmi valoriali che avevano rappresentato lo spirito ed il corpo della lotta partigiana tanto nella vita di brigata in montagna quanto in quella nelle cellule guerrigliere dei Gap e delle Sap in città.
La questione del fascismo, pur presente nelle forme terroristiche delle stragi e dai tentativi di golpe, appariva sciolta dentro il processo di partecipazione politica e democratica di milioni di donne e uomini iscritti ai partiti ed ai sindacati o militanti nei movimenti. L’antifascismo si sostanziava attraverso l’allargamento a base di massa dei diritti prima ancora che nei divieti delle leggi penali (che pure furono applicate contro il movimento politico Ordine nuovo nel 1974 e contro Avanguardia nazionale nel 1975).
Tuttavia la storia insegna che le spinte regressive tendono ad emergere e riemergere dal suo gorgo quando il sistema democratico viene meno alle sue funzioni essenziali. Così era stato ai tempi della crisi dello Stato liberale, da cui nacque il fascismo, così è oggi laddove la crisi della democrazia si mostra come un fattore internazionale che attraversa, seppur in forme distinte, gli Usa come l’Argentina; l’Italia come l’Ungheria; la Francia come le storiche socialdemocrazie scandinave. Tali destre plurali a base di massa trovano in questo contesto la possibilità di risignificare le loro possibilità di rappresentanza nella società globale per il tramite di istanze corporative e neocorporative che collidono con gli interessi collettivi e generali tanto sul piano economico-sociale quanto su quello dei diritti. Su questo terreno di conflitto la democrazia repubblicana deve recuperare il suo carattere intrinsecamente antifascista ovvero rispondere alle crisi del presente con una mobilitazione ed un conflitto legittimo per l’applicazione integrale della Costituzione, contro il tentativo di suo stravolgimento (dal premierato all’autonomia differenziata) e per raccogliere un nuovo consenso sociale attorno agli istituti nati dalla Resistenza. È qui che si trova il senso del 25 aprile oggi.
L’autore: Storico, consulente delle Procure di Bologna e di Brescia (per le stragi del 1980 e 1974), Davide Conti ha scritto, tra i suoi ultimi libri, “Fascisti contro la democrazia. Almirante e Rauti alle radici della destra italiana 1946-1976″ (Einaudi, 2023). Qui la recensione di Left
Dal 23 al 25 aprile la Festa della Resistenza a Roma (qui il programma)
25/04/2024
da Left
Davide Conti