28/10/2025
da Avvenire
Cresce il numero dei Paesi europei che hanno deciso di riattivare o estendere il servizio militare. In Italia non è mai stato formalmente abolito ma sospeso dal 2005
Le caserme, in Italia, spesso sono edifici abbandonati che i cittadini vorrebbero abbattere per motivi di decoro. Nei casi migliori, sono state riconvertite a usi civili: spazi per associazioni, archivi, università. Non avremmo mai immaginato, fino a un paio di anni fa, una dolorosa inversione di tendenza, con la prospettiva sempre più concreta, di tornare ad aprire cancelli e cortili per accogliere forze armate più numerose e, soprattutto, con i volti dei nostri giovani invece che con quelli dei veterani della divisa.
I ricordi della cosiddetta naja appartengono a un’altra epoca, e tra i ragazzi l’idea di “perdere” un anno sotto le armi è percepita come qualcosa di impensabile. Eppure, proprio i conflitti che si combattono alle porte dell’Europa — e nei quali, seppure indirettamente, siamo già coinvolti — stanno riportando la questione della leva militare al centro del dibattito pubblico.
L’Europa si mobilita
La guerra d’aggressione russa in Ucraina ha incrinato certezze consolidate con cui avevamo messo in soffitta la coscrizione obbligatoria. La pace come un dato di fatto, la difesa affidata a forze professionali esigue, la convinzione che i grandi conflitti fossero un ricordo del passato improvvisamente si sono trasformati da sfondo sicuro a elementi messi tragicamente in discussione. Di fronte alle situazioni belliche in Ucraina e Medio Oriente, che necessitano di uomini e mezzi in misura crescente per il tributo di sangue che si continua a versare, molti governi europei hanno riaperto mappe e cassetti legislativi: la leva, sospesa altrove, non è più considerata una scelta definitivamente cancellata, ma un possibile strumento di rinforzo delle dotazioni nazionali viste le crescenti minacce.
Negli ultimi anni diversi Paesi europei hanno riattivato o esteso la leva militare, spinti dalle tensioni con la Russia e dalla necessità di rafforzare le proprie riserve. La Lettonia ha reintrodotto nel 2023 il National Defence Service, la Lituania lo aveva già fatto nel 2015 e la Svezia nel 2017, adottando un sistema selettivo per sorteggio. La Croazia ha approvato una leva breve di addestramento di base con opzione civile. Altri Paesi come Austria, Cipro, Estonia, Finlandia e Grecia mantengono da tempo la coscrizione obbligatoria, sebbene con modalità differenti. Nel complesso, l’Europa settentrionale e orientale guida il ritorno alla leva come risposta al clima di insicurezza, decisioni spesso assunte quali esplicite risposte alla percezione di vulnerabilità, specialmente negli Stati vicini alla frontiera orientale.
L’Italia in sospeso
L’Italia vive una posizione intermedia: la coscrizione universale maschile è sospesa dal 1° gennaio 2005, ma non formalmente abolita; la legge prevede la possibilità di riattivarla in caso di guerra o emergenza nazionale. Oggi le Forze Armate sono professionali, e il discorso pubblico sul ritorno della leva è stato più “culturale” che operativo, in particolare intorno all’idea, tutt’altro che militarista, anzi, di un servizio civile o “servizio universale” utile a ricostruire senso civico e impegno individuale. Oggi alcuni segnali e alcune dichiarazioni del ministro della Difesa, Guido Crosetto, indicano una potenziale direzione diversa, quella di un ritorno della chiamata in armi per addestrarsi a futuri conflitti.
La tentazione tedesca
Il caso tedesco è emblema di questo ciclo di revisione strategica. Dopo la sospensione del servizio militare obbligatorio operata nel 2011, Berlino sta ripensando la propria dotazione di sicurezza. Il governo ha elaborato piani per aumentare la Bundeswehr, introducendo un programma di ferma volontaria di sei mesi e puntando a rafforzare significativamente le riserve. Il cancelliere Friedrich Merz, insieme con altri esponenti politici, ha definito lo stop alla coscrizione “un errore” e ha messo sul tavolo l’ipotesi – implicita come piano B – di provvedimenti più vincolanti se nella modalità attuale non si raggiungessero numeri sufficienti. Una grande potenza europea si confronta con la difficile opzione tra libertà civili e “normalità” rispetto a preparazione specifica alla guerra e necessità di soldati.
La questione di genere
Anche la questione di genere entra nel ripensamento della difesa: la Norvegia ha introdotto la leva universale per entrambi i sessi (legge entrata in vigore dal 2015), la Danimarca ha recentemente esteso il reclutamento a partire dai 18 anni anche alle donne, con modelli di sorteggio a genere neutro, per ampliare la base di riservisti e rendere più equo il carico della difesa nazionale.
Il ruolo dei professionisti
Diverso è l’approccio di Paesi come Francia, Regno Unito e Spagna, che mantengono forze armate interamente professionali e non prevedono alcuna forma di chiamata militare obbligatoria. In Francia, la coscrizione è stata sospesa nel 1997 e sostituita, dal 2019, dal Service National Universel, programma civile non obbligatorio destinato ai giovani tra 15 e 17 anni, orientato all’educazione civica e alla coesione nazionale. Il Regno Unito ha abolito il National Service nel 1960 e da allora si affida esclusivamente a un esercito professionale. Anche la Spagna ha sospeso la leva nel 2001.
L’ora dei droni
A questo quadro geopolitico va aggiunto un elemento che rende la questione della leva quasi paradossale: la guerra si sta automatizzando. Droni armati, sistemi di lancio autonomi, algoritmi che assistono (o, in futuro, sostituiscono) il comando umano nello scegliere i bersagli e nel colpirli stanno cambiando la fisionomia dei combattimenti e dei campi di battaglia. L’uso crescente di sistemi assistiti dall’intelligenza artificiale riduce la presenza fisica degli operatori umani, ma rischia di ampliare la letalità e la scala degli attacchi. Molte organizzazioni internazionali e Ong avvertono dei rischi altissimi di lasciare decisioni di vita e morte a macchine o algoritmi senza trasparenza né controllo diretto o responsabilità dei comandi militari.
La tecnologia rende possibile scontrarsi a distanza, con costi apparentemente minori, eppure essa non evita la necessità della presenza umana sul fronte. L’automatizzazione spesso esige l’impiego di una grande quantità di soldati per proteggere le linee logistiche, riparare ciò che le macchine danneggiano, comporre l’ultimo miglio della difesa. La tecnologia può trasformare i soldati in qualcosa che assomiglia a “carne da macello”, lasciandoli esposti a droni e a sistemi d’arma tecnologicamente avanzati. Al tempo stesso, la presenza di forze umane addestrate resta spesso l’unico rimedio credibile per difendere società e istituzioni.
Una paura collettiva
Il ritorno della leva in Europa non è soltanto questione di numeri e caserme rimesse a nuovo. È il sintomo di una paura collettiva: che la pace lunga di ottant’anni si sia incrinata e che, per proteggere ciò che abbiamo costruito, si debba oggi tornare a insegnare ai giovani a difendere i confini, anche vestendo una divisa e imbracciando un’arma, pronti a usarla.
C’è, infine, un aspetto potenzialmente forse meno negativo della tendenza in atto. Forze armate che comprendono una quota significativa di coscritti – e non solo militari di carriera o volontari professionisti – tendono a mantenere un legame più stretto con la società civile da cui provengono. Ciò può favorire, almeno in parte, una mentalità meno bellicista e più attenta ai limiti morali e giuridici dell’uso della forza. La presenza di soldati “temporanei”, spesso giovani che si percepiscono più come cittadini in servizio che come combattenti per vocazione, può contribuire a conservare, anche in contesto di conflitto, una maggiore sensibilità verso le regole del diritto internazionale e i diritti umani. Ma non è una garanzia: la storia insegna che anche eserciti di leva possono compiere atrocità, e che il rispetto delle norme dipende in larga misura dalla cultura politica e dall’addestramento. E torniamo così alla necessità di una cultura di pace che non possiamo archiviare a cuor leggero.

