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Intervista . Rojava. Beritan Serdar: “Ho scelto le YPJ per costruire una vita libera”

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Politica estera

27/10/2025

da Pagine esteri

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La libertà non dovrebbe essere soltanto un concetto astratto, ma rappresentare un’idea di condivisione, di assenza dall’individualismo: un progetto collettivo da costruire, passo dopo passo, all’interno della società e delle sue contraddizioni.

La libertà non dovrebbe essere soltanto un concetto astratto, ma rappresentare un’idea di condivisione, di assenza dall’individualismo: un progetto collettivo da costruire, passo dopo passo, all’interno della società e delle sue contraddizioni.

Per molto tempo, e ancora oggi, il rispetto per le donne è rimasto fragile, incerto, in gran parte della società moderna e contemporanea. Anche in una terra come il Rojava, che per molti rappresenta un laboratorio di libertà e di resistenza, questo tema resta una ferita aperta, un progetto da tenere vivo, da costruire giorno dopo giorno.

In Rojava, educare le donne a essere autosufficienti, non solo economicamente, ma anche sul piano ideologico e formativo, è una questione centrale discussa da anni. Le combattenti delle YPJ (Unità di Protezione delle Donne) continuano a farlo ogni giorno, lottando non solo sul piano militare ma anche su quello educativo e culturale. Formatesi nell’aprile del 2013, le YPJ rappresentano l’ala militare femminile delle forze armate curde presenti nel territorio del Nord Est della Siria, il Rojava. Durante la guerra siriana hanno avuto un ruolo decisivo nella battaglia per la liberazione della città di Raqqa nel 2017, allora sotto l’occupazione dello Stato Islamico e in quella che è stata definita la “rivoluzione del Rojava”, dove le donne combatterono con coraggio, esercitando un forte grado di autonomia e assumendo un ruolo attivo nelle decisioni e nelle operazioni di combattimento.

La loro battaglia, però, non si è svolta solo contro un nemico esterno, ma anche contro un sistema di pensiero che considera naturale che una donna debba dipendere da un uomo o dalla propria famiglia.

“Liberarsi” significa uscire da quella che loro stesse chiamano una “prigione mentale”: uno spazio invisibile, fatto di abitudini e imposizioni, che impedisce alle donne di scegliere autonomamente il proprio futuro.

Le donne e le combattenti delle YPJ cercano di abbatterlo ogni giorno, con gesti che vanno oltre la guerra: studiare, discutere, amministrare, prendersi cura della comunità. Il Rojava non rappresenta solo un territorio di combattimento ma anche un “progetto” di cambiamento culturale dove il ruolo delle donne viene considerato parte attiva e integrante dello stato. Nella campagna di Qamishile, nel 2017, un gruppo di donne curde ha deciso di costruire un villaggio completamente autonomo “Jinwar”, un luogo dove la vita potesse essere organizzata secondo principi di uguaglianza, solidarietà e indipendenza. Un progetto nato da un’idea teorizzata nel 1999 da Abdullah Ocalan, che vede nell’educazione al sostentamento una forma di lotta affinché le donne possano avere il potere di occuparsi autonomamente di loro stesse. È una visione semplice che pone l’autonomia femminile al centro della trasformazione sociale. rappresentando l’essenza stessa del concetto di “autodeterminazione”.

In questo senso, le combattenti delle YPJ non rappresentano soltanto un corpo armato, ma un messaggio. Un simbolo di emancipazione e autodeterminazione. Il concetto di “autodifesa”, in questo contesto, va oltre la dimensione militare. È un termine complesso, spesso difficile da comprendere per chi osserva da lontano una realtà in cui l’ambito civile, sociale e militare sono strettamente intrecciati, eppure le donne e le combattenti nel Rojava hanno avuto e continuano ad avere un ruolo chiave per il riconoscimento dei propri diritti, in funzione della costruzione di un nuovo modello di convivenza.

Le combattenti curde delle YPJ sono parte del cambiamento, protagoniste di una trasformazione che, al di là delle armi, parla soprattutto di libertà.

In Rojava abbiamo incontrato queste combattenti, abbiamo parlato con loro, in una base di addestramento, dove per ragioni di sicurezza siamo venuti a conoscenza del luogo solo qualche ora prima. Una base in mezzo alla campagna dove vivono e si addestrano. Nelle stanze sono appese immagini di Ocalan e delle combattenti uccise durante la guerra contro lo stato islamico.

Beritan Serdar (non sappiamo se questo sia il suo vero nome) una combattente delle YPJ ci ha raccontato la sua storia e le motivazioni che l’hanno spinta a fare parte di questo movimento.

Quando e per quali motivi hai scelto di entrare all’interno del movimento delle YPJ? 

“Sono entrata di recente nelle YPJ, nel 2020. La mia scelta è nata anche vedendo il ruolo centrale che questo movimento ha avuto durante la guerra nel combattere l’ISIS e liberare i territori e le aree dagli attacchi e dall’occupazione dello Stato Islamico. Ho capito che una donna può contribuire in modo concreto alla società in cui vive. Ho cominciato a sentire che esisteva una speranza ed è per questo che ho deciso di unirmi a questo movimento. Per me è un onore essere all’interno delle YPJ e costruire qualcosa sia per me stessa sia per la mia comunità.”

Come descriveresti la tua vita prima di entrare nelle YPJ?

“La mia vita era piuttosto normale, scandita da una routine quotidiana: vivevo come una donna comune nella società, studiavo e avevo una vità semplice, dove tutto scorreva in modo ordinario. Ma ora è completamente diverso. Prima come donne ci stavamo “spegnendo” dentro la società, perché non eravamo libere di scegliere il nostro futuro né di decidere la vita che volevamo. Tutto era routine: studiare, stare in famiglia, vivere una vita normale e prevedibile. Oggi invece riceviamo formazione, istruzione e ogni giorno sento che la mia vita è in trasformazione, che finalmente sta cambiando. Adesso posso parlare liberamente la mia lingua madre (curdo ndr), cosa che prima non era sempre possibile, vivendo in una società dove il curdo non è riconosciuto come lingua ufficiale. Il problema è che, in questa società, la vita di una donna è già scritta: ci si sposa, si resta in famiglia e si accettano scelte imposte da altri. Difficilmente le donne scelgono davvero cosa vogliono, ma io ho deciso di scegliere la mia strada senza essere costretta ad accettare scelte imposte.”

 Hai incontrato resistenze da parte della tua famiglia quando hai deciso di entrare nelle YPJ?

“Nel 2020, quando ho deciso di entrare nel movimento delle YPJ, la condizione delle donne nella società era più restrittiva e conservatrice rispetto ad oggi. La società e anche la mia famiglia non credevano che una donna potesse essere indipendente e forte, soprattutto in un contesto come quello militare. Il mio ingresso all’interno delle YPJ è stato un atto di emancipazione, ma anche di dolore: da un lato rappresentava la mia scelta di libertà, dall’altro portava con sé la distanza emotiva e la preoccupazione dei miei genitori. La paura della mia famiglia non è cambiata neppure oggi, nonostante la situazione generale sia migliorata. Le famiglie, come anche la mia, restano segnate dall’ansia e dalla preoccupazione per le figlie che infrangono le regole tradizionali. La mia famiglia aveva paura perché voleva proteggermi. Ho avuto contrasti ed incomprensioni con loro perché non accettavano la mia scelta. Sto imparando ad essere indipendente, ma per loro nella vita di una donna dovrebbe esserci sempre un uomo. Le persone intorno a me spesso non accettano la mia indipendenza come donna, criticano il fatto che io voglia vivere e agire da sola. Molti dei miei familiari ancora oggi si chiedono come una donna possa davvero essere indipendente, ma io voglio continuare su questa strada, anche per dimostrare il contrario: per dimostrare che non deve esserci sempre un uomo a dire ad una donna cosa deve fare.”

Puoi raccontarci com’è la tua giornata all’interno delle YPJ? 

“Iniziamo la giornata alle 6:00 di mattina. Per prima cosa teniamo una riunione collettiva, in cui condividiamo ciò che abbiamo fatto il giorno precedente, poi iniziamo l’addestramento e l’attività fisica che dura circa un’ora. Dopo la colazione scegliamo insieme una compagna, che per tutta la giornata, sarà responsabile delle attività all’interno del campo, dalla formazione politica a quella militare, a seconda delle necessità del momento, e una persona che invece si occuperà della preparazione dei pasti per tutte. Nel pomeriggio abbiamo momenti di discussione collettiva: parliamo di politica, di storia, dei movimenti delle donne, di cultura. Dalle 19 in poi, fino a fine giornata, seguiamo e commentiamo le notizie dei telegiornali confrontandoci su ciò che accade nel mondo e nella nostra regione, perché per noi è importante non essere solo combattenti, ma anche comprendere la realtà che ci circonda. La sera condividiamo momenti più personali, guardiamo documentari o condividiamo foto e ricordi della nostra vita e della nostra esperienza.”

Hai mai combattuto contro il nemico? Qual era il tuo stato d’animo in quei momenti? 

“Ho preso parte ad alcune operazioni militari, ma non a combattimenti diretti. Ho partecipato ad alcune missioni militari nel campo di Al-Hol con l’obiettivo di fermare gli attacchi dell’ISIS all’interno del campo.  Non ho provato paura, piuttosto preoccupazione, perché quando entro in un’operazione militare cerco di capire tutti gli scenari possibili: cosa potrei incontrare, come dovrei reagire, cosa potrebbe accadere e in che modo potrei proteggermi. Mi chiedo se la mia esperienza militare sarà sufficiente per affrontare ciò che potrei trovarmi davanti. Trovo il coraggio sapendo che, anche se non sarò perfetta, non sono mai sola, ma avrò i miei compagni accanto e questo mi dà forza. Mi dà forza anche la consapevolezza, che come movimento, abbiamo combattuto uno dei più grandi gruppi terroristici (ISIS) e ne siamo usciti vincitori. Questo elimina la paura e mi rende pienamente cosciente di quello che sto facendo.”

Quanto ha influenzato la tua decisione di entrare nelle YPJ l’ideologia di Abdullah Ocalan? 

“L’ideologia di Ocalan mi ha aiutato a costruire un insieme di principi e un background personale che mi hanno permesso di avvicinarmi alle idee e allo stile di vita delle YPJ. Ha cambiato profondamente il mio punto di vista sul ruolo della donna, così come la società cercava di definirlo e per questo ha avuto un grande impatto su di me.

La società propone solitamente un solo modo di vivere, un solo modello di famiglia, ma quando ho iniziato a conoscere e a studiare i principi e i pensieri di Ocalan ho cominciato a riflettere più a fondo e a guardare alla vita e al mio futuro in modo diverso. Questa società tende a decidere per noi, partendo dal presupposto che la donna non abbia opinioni proprie e non possa scegliere in autonomia. Io invece ho iniziato a scoprire le mie potenzialità e la mia personalità, definendo i miei obiettivi come donna e dicendo a me stessa che il mio scopo nella vita doveva e poteva essere importante. Prima mi sentivo prigioniera della cultura e delle abitudini di questa società, ora conosco il mio potenziale, parlo la mia lingua e decido la vita che voglio vivere.”

 

Pensi che l’esperienza delle YPJ possa rappresentare un modello per altre donne e movimenti nel mondo?

“Si credo che questo movimento possa diventare un movimento internazionale, un percorso di liberazione delle donne anche in altre parti del mondo. Penso, ad esempio, alla Siria dove sono certa che molte donne vivano le stesse ingiustizie che noi abbiamo conosciuto. Ma questo vale anche per altri paesi, perfino l’Italia. Questo perché noi non siamo solo un movimento militare: certo combattiamo se siamo attaccate, ma non è questo che ci definisce, il nostro percorso non nasce da una situazione temporanea o da una reazione momentanea, è qualcosa che costruiamo ogni giorno, dentro di noi e nella società. Ovviamente uno dei nostri obiettivi principali è la liberazione del nostro popolo dall’ISIS, ma per noi, più importante ancora della lotta armata resta il modo in cui ci organizziamo come donne, costruire un nuovo modo di vivere in cui la donna è al centro del cambiamento. Prima della guerra contro l’ISIS la società e la cultura erano dominate dagli uomini: controllavano tutto anche le donne. Oggi stiamo cambiando questo equilibrio.

Credo che la nostra esperienza possa essere un modello, perché mostra che la rivoluzione parte da dentro, dal modo in cui le donne si uniscono e costruiscono un nuovo modo di vivere. Abbiamo una speranza e vogliamo condividerla con tutte le donne del mondo. Vogliamo che le donne diventino più forti, che scoprano i propri diritti e che siano in grado di ottenerli autonomamente.”

Cosa sogni per le nuove generazioni e come immagini il futuro della Siria e del Rojava? 

“Non so cosa aspettarmi per il futuro, ma certamente lavoriamo per la libertà e la giustizia e nutro una grande speranza per le nuove generazioni: che possano vivere una vita libera, giusta e pacifica. Noi non vogliamo che le stesse cose si ripetano per le prossime generazioni, vogliamo che tutti possano vivere una vita in pace e vogliamo aiutare la società a liberarsi dalla sofferenza che stiamo vivendo oggi, come l’essere sfollati, rifugiati, aver perso case, amici e familiari a causa della guerra. Desideriamo che la prossima generazione cresca con diritti e libertà, che possa vivere senza paura e senza guerra, riconosciuta come popolo”.

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