Una «no man’s land», una ‘terra di nessuno’ dove però tutti vanno a giocare la loro partita geopolitica, per minimizzarne i costi e scaricare i danni collaterali sugli altri. Parliamo dell’Irak, Paese di cui oggi si discute poco, ma nel quale si concentrano molte delle tensioni esistenti nel Medio Oriente oggi sul punto di esploderete, tutte e in un colpo solo. Paese dove l’influenza dell’Iran è decisiva e la presenza militare americana sempre più sgradita e in forse.
L’Irak delle guerre americane
‘Tripartizione’ amministrativa, fabbricata a tavolino dopo le due Guerre del Golfo. Una suddivisione studiata, a suo tempo, dagli strateghi del Dipartimento di Stato, che fotografa in qualche modo le contraddizioni di tutta la regione. L’Irak, insomma, è un concentrato dei problemi del Medio Oriente, dove convivono (si fa per dire) sunniti, sciiti, curdi e i resti di quello che fu il vecchio corpo di spedizione Usa, che sconfisse prima Saddam Hussein e poi l’Isis. Si tratta di circa 2.500 specialisti, che occupano basi aeree e postazioni militari strategiche, indispensabili per il controllo di un’area vastissima, che arriva fino al Golfo Persico. Questa presenza, oggi, è mal tollerata da quasi tutti.
Dopo Isis le vecchie inimicizie
Finita l’emergenza ‘Stato islamico’, che ha fatto fiorire coalizioni improbabili, con l’unico scopo di arginare i sanguinari fondamentalisti, adesso si è tornati alle vecchie inimicizie. E il governo sciita di al-Sudani spinge sull’acceleratore, per vedere realizzate le promesse fatte da Joe Biden: un ritiro completo delle forze americane dall’Iraq e il ritorno a una sovranità senza condizionamenti. Ma, come la storia insegna, gli impegni dei politici sono fatti apposta per non essere mantenuti. Così, mentre prosegue stancamente il tira e molla tra Baghdad e Washington, per definire in tutti i dettagli un accordo di ritiro, nubi nere offuscano l’orizzonte. Il problema principale è diventato l’Iran.
Gli ayatollah in Irak
Gli ayatollah si sono insinuati in Iraq come il coltello nel burro, finanziando e sostenendo una galassia di movimenti di guerriglia islamica, di ogni estrazione. Hanno accolto sunniti e sciiti sotto un’unica bandiera, quella dell’«Asse di resistenza», coordinando le loro attività, tramite le ‘Brigate al-Quds’, direttamente da Teheran. Gli attacchi a intermittenza, condotti contro basi Usa, sono cessati a febbraio, quando il Presidente Biden ha ordinato l’assassinio ‘mirato’ del comandante di Kataib Hezbollah, Abu Bakir al-Saadi. Da allora è subentrata una sorta di tregua armata, per quanto riguarda l’Irak, che però è stata rotta proprio qualche giorno fa, dopo l’uccisione di Ismail Haniyeh a Teheran.
Attacchi a sorpresa con bersagli Usa
Una delle ipotesi che si fanno, è che l’Iran possa attuare una rappresaglia ‘a bassa intensità’, puntando su una serie di attacchi a sorpresa, condotti dai gruppi fondamentalisti affiliati. In questo caso, sempre parlando dell’Irak, il bersaglio sarebbe rappresentato esclusivamente da compound militari statunitensi. Probabilmente, dicono alcuni analisti, la maggiore preoccupazione della Casa Bianca in questo momento è quella di subire un attacco che faccia vittime americane. In quel caso, Biden sarebbe obbligato a rispondere e l’escalation incontrollata potrebbe essere il risultato finale indesiderato. Con effetti disastrosi anche sulla politica interna Usa. D’altro canto, l’Iran ha tutto l’interesse ad alzare la tensione, ma senza arrivare allo scontro.
Iran via Irak contro Usa-Israele
Nel caso specifico, a Teheran vogliono mettere al-Sudani spalle al muro, imponendogli (tramite i partiti sciiti che lo sostengono) di ‘convincere’ Biden a ritirare le sue truppe. Se il tentativo di ‘persuasione’ degli ayatollah non dovesse riuscire, siamo sicuri che tenteranno altre strade, più ‘fragorose’, per indurre l’US Army a fare le valigie. Certo, al Pentagono resterebbero sempre le munitissime basi in Kuwait, Giordania, Bahrein e Turchia. Anche se, al posto di Blinken, ci preoccuperemmo di essere meno spocchiosi con Erdogan. Ovviamente, per chi conosce la diplomazia ‘parallela’, anche in questo caso la politica estera di Biden è andata avanti zigzagando.
Politica estera ‘zigzagante’
Il disimpegno dall’Irak è stato uno dei suoi primi obiettivi, da raggiungere non appena diventato Presidente. Poi se lo è rimangiato, mano a mano che la “dottrina Sullivan” sul Medio Oriente si rivelava fallimentare.
Pensate, Jake Sullivan, Consigliere per la Sicurezza nazionale degli Stati Uniti, il 2 ottobre 2023 scrisse un articolo per la prestigiosa rivista Foreign Affairs. In quel pezzo rivendicò i “successi della politica estera di Joe Biden, in un Medio Oriente finalmente pacificato”. Cinque giorni dopo, Hamas uccise 1200 israeliani e apri le porte dell’apocalisse.
08/08/2024
da Remocontro