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Israele liberi Marwan Barghouti, il Mandela palestinese

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Politica estera

24/10/2025

da Left

Stefano Galieni

Mentre a Gaza la tregua è sempre più fragile e senza futuro, cresce in tutto il mondo la richiesta di liberare il leader di Al Fatah detenuto da 23 anni nelle carceri israeliane. Può unire Gaza e Cisgiordania

Mentre scriviamo è in atto a Gaza una fragilissima tregua pomposamente definita “pace di Trump”, che ha permesso la liberazione di ostaggi e prigionieri e ridotto i raid israeliani, ma che non sembra poter prefigurare alcun futuro. Come noto finora, al di là della mediazione con Hamas, a riunirsi sono stati esponenti di numerosi Paesi, ma non ha trovato spazio la voce del popolo palestinese e delle sue rappresentanze. Quella più autorevole, che forse potrebbe influire positivamente è rinchiusa da 23 anni nelle carceri israeliane. Parliamo di Marwan Barghouti, leader di Al Fatah, riconosciuto tanto a Gaza che in Cisgiordania, ma persino in Israele e nel resto del mondo, considerato il “Nelson Mandela” palestinese.

Di recente è partita la raccolta, lanciata su change,org da numerose personalità del mondo della sinistra (l’elenco dei primi firmatari è contenuto nell’appello) che mentre scriviamo ha superato i 12 mila sottoscrittori e sottoscrittrici. Anche in altri Paesi sono partite simili petizioni e/o appelli, firmati da figure intellettuali, parlamentari di vari Paesi, esponenti delle comunità ebraiche unite da un comune punto di vista: occorre un reale percorso di pace.
Bisogna interrogarsi sulle ragioni per cui Barghouti sia così importante e per quali motivi sia stato escluso dall’elenco dei prigionieri liberati da Israele in cambio della restituzione degli ostaggi presenti a Gaza mentre altre persone, imputate e condannate per reati ben più gravi, siano tornate in libertà. Secondo molte fonti, palestinesi, israeliane e anche provenienti da diversi contesti internazionali, Barghouti, è in grado, per la sua storia coerente ma anche grazie al carisma conquistato, di poter sedere ad un tavolo negoziale, di poter risultare decisivo in un reale e duraturo processo di pace. Occorre quindi inquadrare meglio la sua figura.
Marwan Marghouti, è’ nato nel 1959 a Kobar, nei pressi di Ramallah in una famiglia comunista ed è entrato in Al Fatah a 15 anni. Tre anni dopo venne arrestato, durante una sommossa. Durante la sua prima esperienza di detenzione imparò l’ebraico, che parla correttamente (lingua che ha poi insegnato in questi anni in carcere, con l’idea che sia fondamentale per la conoscenza reciproca). Dopo il suo rilascio si laureò in storia all’Università di Bir Zeit (un tempo chiamata “la rossa”), e prese una seconda laurea in scienze politiche con un Master of Arts in relazioni internazionali.

Quando iniziò la “Prima intifada”, altrimenti detta “la rivolta delle pietre”, animata soprattutto da giovani, alla fine del 1987, ne fu tra i promotori. Questo gli costò l’espulsione in Giordania da cui tornò solo nel 1994 dopo la firma degli accordi di Oslo per cui, anche da Amman, si spese molto. Nel 1996 venne eletto nel Consiglio legislativo palestinese (Plc), con un approccio improntato al dialogo e al processo di pace. Rapidamente scalò la gerarchia palestinese, imponendosi sul notabilato che aveva già perso in autorevolezza, fino a diventare segretario generale di al Fatah per la Cisgiordania. Leader come il Presidente Arafat e lo stesso Abu Mazen, già lo guardavano come proprio possibile successore.

Come noto gli accordi di Oslo si rivelarono un fallimento, non fermarono la costruzione di insediamenti in Cisgiordania, vere e proprie colonie illegali anche per l’Onu, abitate per lo più da persone di religione ebraica ma provenienti dall’est Europa, che lentamente acquisirono gran parte delle terre migliori dei villaggi palestinesi, definendo proprie vie di comunicazione e determinando un regime di vero apartheid.
Le violenze continue portarono alla seconda intifada, molto più dura perché alle pietre sostituirono le armi da fuoco e gli attentati, in una guerra di liberazione comunque asimmetrica. Anche Marwan Barghouti sperimentò una profonda delusione e si mise capo del “Tanẓīm-Fatḥ”, una sorta di braccio armato da cui poi si distaccò per formare, secondo le accuse israeliane, le Brigate dei Martiri di al-Aqsa. Queste formazioni, malgrado il nome che evoca la moschea di Gerusalemme, erano il coagulo di gruppi, secolarizzati che ben poco avevano a che fare con la logica del martirio islamista. Nel 2002 iniziarono a colpire obiettivi militari, poi furono accusate di attacchi contro civili tanto da essere inserite nella Black list di Usa e Ue. Marwan Barghouti, ammise apertamente il diritto al ritorno alla lotta di resistenza, anche armata, e venne considerato, dai tribunali israeliani il capo di queste strutture. Prima di essere arrestato, in un’intervista, pubblicata dal Washington Post, dichiarò: “Non sono un terrorista, ma non sono neppure un pacifista. Sono semplicemente un normale uomo della strada palestinese, che difende la causa che ogni oppresso difende”. Del resto il diritto alla resistenza è garantito anche dalla Convenzione di Ginevra e da numerose carte costituzionali financo, alla Dichiarazione di indipendenza degli Usa e dalle leggi israeliane, secondo cui difendersi è un dovere. L’Onu che opera per prevenire ogni conflitto e/o violenza, con la Risoluzione 37/43 dell’Assemblea Generale, adottata nella 90ª seduta plenaria del 3 dicembre 1982, menzionò esplicitamente il diritto alla ribellione o resistenza.

Questo non ha impedito di accusare Barghouti come mandante di 5 omicidi, e di condannarlo ad altrettanti ergastoli nonché a numerosi ulteriori anni di detenzione. Il tutto in totale assenza di prove anzi, durante i dibattimenti di cui Barghouti non ha mai riconosciuto la legittimità, gli elementi a suo discarico non furono mai ammessi come probatori. Quello che invece è provato è che ben prima, nel 2001, era stato sventato il tentativo di assassinarlo, ordito dall’apparato militare israeliano e dai servizi segreti, che praticano da sempre l’omicidio extragiudiziale come forma di azione preventiva verso coloro che ritiene nemici, sia nei territori occupati che in ogni angolo del pianeta, almeno dal 1972.

Durante questi lunghi anni trascorsi in carcere, più volte, anche recentemente, è stato vittima di abusi e violenze da parte del personale carcerario. L’essere considerato, diverso dai vertici dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), spesso accusata di debolezza e corruzione, lo hanno reso un simbolo e un punto di riferimento. Un “eroe nazionale” che, una volta libero e in condizione di svolgere attività politica, sarebbe forse il solo in grado di coagulare tanto le forze del radicalismo islamista quanto quelle più laiche. La sua voce riunificherebbe due territori separati in questi anni non solo a causa dell’occupazione e dei conflitti: la Striscia di Gaza, o quello che ne resta, su cui ha pesato il dominio di Hamas e la Cisgiordania in cui ancora vige l’autorità dell’Anp.

Nonostante i lunghi periodi di isolamento in carcere, Barghouti è stato anni fa fra i promotori di un documento, dei Prigionieri Palestinesi (o Documento di riconciliazione nazionale), sottoscritto da esponenti di Hamas, Fatah e Jihad islamica, che invocava la creazione di uno Stato palestinese indipendente con Gerusalemme Est come capitale e confini basati sulle linee del 1967. Il suo volto è raffigurato in murales tanto in Cisgiordania che a Gaza. Le notizie che arrivano in questi giorni, da un fratello, da suo figlio, da sua moglie, Fadwa Barghouti che è anche l’avvocata che lo difende nonché dirigente politica, parlano di un uomo che non si è arreso.
Secondo un alto funzionario di Al Fatah, Awni Almashni, “Per molti palestinesi il suo rilascio potrebbe essere il metro per decidere il successo o il fallimento di questo accordo”.

Le ragioni per cui non viene liberato non sono giuridiche ma prettamente politiche, lo si evince per numerose ragioni. Numerosi leader israeliani, non certo quelli del governo dell’ultradestra che lo vorrebbero forse morto, per far ripartire la carneficina e giustificare l’annessione dell’intera Cisgiordania o al massimo in esilio in un Paese lontano, affermano chiaramente che Barghouti è la persona con cui dialogare e cercare un’intesa che scongiuri il proseguo della guerra, ma questo segnerebbe la fine di Netanyahu e del suo governo. C’è chi già da molto tempo sembra pensarla in maniera diversa.
Già nel 2007, l’allora vice primo ministro israeliano Shimon Peres, dichiarò che in caso di vittoria alle elezioni avrebbe firmato il perdono per il prigioniero. Vinse ma non mantenne tale promessa.

Il movimento israeliano pacifista Gush Shalom chiede continuamente la sua scarcerazione e, nei giorni scorsi, ha tentato di porre il problema anche Il presidente del Congresso Ebraico Mondiale, Ronald Lauder, offrendosi di partecipare alla fase dei negoziati a Sharm El Sheikh e chiedendo esplicitamente che Barghouti venisse inserito nella lista delle persone da liberare. Col pretesto di non poter rischiare una spaccatura interna, il governo israeliano ha impedito tale intervento ma, pare certo che sia stato lo stesso Netanyahu a negare ogni ipotesi di liberazione.

Va anche detto che la liberazione di Marwan Barghouti porterebbe ad un rimescolamento nella leadership palestinese. Hamas troverebbe un uomo disponibile al dialogo e alla riunificazione fra i diversi movimenti, ma anche colui che potrebbe segnare il declino del partito islamista, le cui scelte politiche e militari hanno già incontrato opposizione soprattutto a Gaza. La stessa Anp dovrebbe rivedere i propri ruoli e definire quello che non è solo un cambio generazionale.

E mentre dalle prigioni in cui viene spostato Marwan Barghouti, giungono notizie pessime di nuove aggressioni da parte dei carcerieri, che ne mettono in pericolo la vita – ne ha subite almeno 4 in un anno senza ricevere cure mediche – e mentre non è neanche chiaro se sia ancora nell’inferno di Megiddo (nord di Israele) o in altra struttura, forse la spiegazione più netta della sua situazione ci giunge da un giornalista italiano molto affermato. Si tratta di Paolo Mieli che, intervistato da Lilli Gruber nella sua trasmissione ha recentemente affermato “Marwan Barghouti va liberato, ma non adesso. Va liberato come Mandela, […] Altrimenti, se lo liberiamo subito, è uno che può creare molti problemi a Israele”. Ad avviso non solo di chi scrive, questa è l’essenza di un pensiero colonialista, condivisa non solo in Israele: è il più forte a fare la legge, a dettare le condizioni, a decidere tempi e dignità di chi è oppresso. Un tempo in Israele, l’allora primo ministro, poi Nobel per la Pace, Yitzhak Rabin, assassinato nel 1995 da un estremista di destra israeliano, affermava che “la pace si costruisce negoziando con il nemico, non con gli alleati”. Ora si preferisce tenere il nemico in catene, segno del reale momento di pericolo che sta vivendo tutto il pianeta.

Anche per questo ci si deve augurare che, in quanto anticorpi al tentativo di impedire ogni reale processo che porti a pace e giustizia, proseguano le mobilitazioni contro lo Stato di Israele e il suo governo, attraverso il boicottaggio, la solidarietà attiva, le piazza, le migliaia di bandiere che sventolano ormai in ogni città del pianeta. Per fermare il disastro va riconosciuto lo Stato di Palestina, vanno liberati tutti i quasi 10 mila detenuti politici, non solo Marwan Barghouti e devono intervenire gli organismi sovranazionali. La raccolta di firme, ripetiamo attraverso Change.org è un atto individuale che acquista valenza collettiva. Che in tante e in tanti firmino e diffondano la proposta.

foto di Barghouti quando fu arrestato, fonte wikipedia commons

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