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Israele pone condizioni irrealizzabili per il ritorno dei palestinesi nel campo di Jenin

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Politica estera

06/12/2025

da Pagine esteri 

Redazione 

La tv i24 riferisce che le autorità israeliane hanno presentato una serie di condizioni irrealizzabili per consentire il ritorno dei residenti nel campo profughi palestinese di Jenin e degli altri campi e centri abitati nel nord della Cisgiordania che da quasi un anno sono presi di mira dall’offensiva “Muro di ferro” dell’esercito israeliano. La prima riguarda il divieto imposto all’Autorità Nazionale Palestinese di permettere l’ingresso nei campi delle organizzazioni umanitarie internazionali, una richiesta che per Ramallah è impossibile da realizzare, poiché equivarrebbe all’abbandono anche politico della questione dei rifugiati. Israele ha dichiarato che senza un accordo preliminare su questo punto non si potrà discutere di nulla.

Le altre condizioni appaiono una prosecuzione in chiave amministrativa di quanto l’esercito sta facendo da mesi sul terreno. Il ritorno degli sfollati sarebbe consentito solo dopo il completamento dei lavori di ristrutturazione dei campi, un eufemismo che nella pratica significa demolire case, allargare assi stradali, asfaltare le vie tracciate sulle macerie degli edifici e predisporre un sistema di barriere e posti di polizia destinati a controllare rigidamente l’accesso. Tutto ciò avverrebbe in pieno coordinamento con i comandi militari, che intendono dotare i campi anche di infrastrutture sotterranee per le reti idriche ed elettriche, un’operazione presentata come infrastrutturale, ma che i palestinesi vedono come un modo per consolidare il controllo da parte dell’occupazione militare.

La ricostruzione secondo i parametri israeliani ha già assunto i contorni di una trasformazione profonda dei campi. A Jenin, dove l’esercito è tornato più volte nel corso dei mesi, sono cominciate nuove demolizioni. Dall’inizio dell’offensiva, più di 700 case e strutture sono state distrutte in modo parziale o totale. Non va meglio nei campi di Tulkarem e Nur Shams, anch’essi travolti dall’operazione che ha prodotto oltre cinquantamila sfollati.

La fase attuale è il risultato di oltre 300 giorni di incursioni, rastrellamenti, demolizioni mirate e campagne di arresti che hanno colpito in modo continuo Jenin, Tulkarem e Nur Shams. Il governatore di Tulkarem, Abdullah Kamil, aveva riferito alla fine di ottobre che le autorità israeliane hanno preannunciato l’estensione delle operazioni militari almeno fino alla fine di gennaio 2026.

In questo quadro si inserisce l’ultimo episodio di violenza registrato ieri nel villaggio di Awarta, a sud di Nablus, dove Bahaa Rashid, 38 anni, è stato ucciso da colpi d’arma da fuoco durante un’incursione delle forze israeliane nei pressi della vecchia moschea di Odla. Secondo fonti locali, i soldati hanno sparato proiettili veri, gas lacrimogeni e granate assordanti contro i fedeli che uscivano dalla preghiera, innescando scontri che hanno portato al ferimento mortale di Rashid.  Dall’inizio dell’offensiva contro Gaza, l’intensificazione delle attività dell’esercito in Cisgiordania ha causato l’uccisione di almeno 1085 palestinesi e il ferimento di undicimila persone. Parallelamente, si contano circa 21 mila arresti nei territori occupati, inclusa Gerusalemme, con oltre 10.800 ancora nelle carceri israeliane.

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