Si impone sui campi di battaglia, ma subisce i colpi dei severi analisti finanziari. E con le convulsioni che coinvolgono il dio-dollaro, nemmeno la ‘incrollabile solidarietà’ dello Zio d’America Joe Biden funziona. E quando le valutazioni fanno guadagnare o perdere) miliardi di dollari, allora le ‘sentenze’ sui Paesi in esame sono scrupolose. E valgono molto di più delle previsioni dei politici di professione.
Moody’s, prima battaglia persa da Israele
Pochi giorni fa, Moody’s è tornata a declassare l’economia israeliana, tagliando il rating del debito. Lo aveva già fatto a febbraio, portandolo ad A2 (una tacca in meno). Ma adesso l’affidabilità di Tel Aviv è sprofondata di altre 2 tacche, fino a Baa1. Vuol dire, che se lo Stato ha bisogno di soldi per fare la guerra, e che è più rischioso prestarglieli. E quindi deve pagare più interessi per convincere la gente ad acquistare i Bond. Insomma, il risultato finale è che mentre Netanyahu parte all’attacco di tutto il Medio Oriente, i suoi cittadini dovranno contribuire con nuove tasse o meno spesa sociale. Anche S&P e Fitch hanno abbassato il rating in tempi diversi, ma ognuna con le stesse motivazioni di Moody’s: impossibile elaborare previsioni affidabili, nel medio periodo, per colpa dell’andamento delle operazioni belliche.
Troppa guerra non garantisce il futuro
Il Ministro israeliano delle Finanze, il noto estremista Bezalel Smotrich, ha così commentato le decisioni della società di rating: “Israele è nel mezzo della sua guerra esistenziale più lunga e costosa, combattuta su più fronti per un anno. Il declassamento dovuto alla guerra e ai rischi geopolitici che crea è prevedibile. Approveremo un bilancio responsabile, per supportare tutte le esigenze di guerra sul fronte e in patria fino alla vittoria, mantenendo al contempo quadri fiscali e promuovendo motori di crescita. I rating del credito – ha concluso – saliranno presto di nuovo”. Ma l’intervento di Smotrich è avvenuto prima dell’ulteriore declassamento deciso da Moody’s. Soprattutto, il governo Netanyahu sembra così assorbito dalla guerra, da trascurare gli elementi fondamentali di contabilità dello Stato.
La banca nazionale di Israele avverte
Lo dice, con tutto il garbo possibile, il presidente della Banca nazionale d’Israele, il professor Amir Yaron. Scrive Natty Toker, su The Marker: “All’ombra della guerra e dei suoi effetti sulla stabilità economica di Israele, il professor Yaron si trova ad affrontare la sfida di un governo che mostra irresponsabilità fiscale. Yaron mette in guardia dall’inflazione e spera di cominciare ad abbassare i tassi di interesse nella seconda metà del 2025”. Ecco, allora, che viene alla luce la vera natura del problema politico-economico del governo Netanyahu: il bilancio. Il 2024 è stato un anno durissimo. Si parla di un deficit che potrebbe superare il 7,5% del Pil. Nel programma anticipato al quotidiano Haaretz, il Ministro Smotrich ha proposto misure che includono “il congelamento delle fasce di imposta sul reddito, il congelamento degli stipendi del settore pubblico, il congelamento del salario minimo, una sovrattassa sugli utili aziendali non distribuiti e l’abolizione dell’esenzione Iva per i turisti”.
Irresponsabilità fiscale?
Netanyahu lo sa? Probabilmente no, perché le ultime voci parlano di accorpare il bilancio su base biennale, con quello del 2026. Per ‘allungare il brodo’ e creare meno malcontento possibile. Anche perché il governo “spendi e spandi” (grazie alla generosità degli “zii d’America”), è riuscito a mantenere esercito, riservisti e ultraortodossi a libro-paga. Cacciando 100 mila palestinesi che lavoravano in Israele (dati Haaretz) e tenendo la disoccupazione bassa, a uno strabiliante (e artificiale) 2,8%. Comunque, se vogliamo fare una riflessione conclusiva, forse Israele, la guerra e l’economia sono un trinomio troppo assortito, anzi quasi contraddittorio. Perché, ai successi (o presunti tali) sul fronte militare, fanno da contrappeso le vistose criticità che denuncia il sistema produttivo e finanziario del Paese.
Situazione insostenibile a lungo
Insomma: l’approccio strategico, che lo Stato ebraico sta utilizzando in questa fase storica, per affrontare i suoi problemi geopolitici, è insostenibile nel medio-lungo periodo. Una potenza regionale di 10 milioni di abitanti (e con un Pil di grandezza relativa), ancorché tecnologicamente avanzata, semplicemente non ha le risorse per condurre una sorta di “guerra permanente” contro alcuni suoi vicini. La mancanza di chiarezza giuridica internazionale, lo status di “non pace”, in pratica equivale a essere in guerra “a bassa intensità perpetua”, con tutto quello che ne consegue, in termini di costi, derivanti da una specifica organizzazione sociale e produttiva.
Senza gli Stati Uniti (e i loro contribuenti), che li sostengano finanziariamente, gli israeliani non potrebbero reggere a lungo un confronto basato solo sulla violenza delle armi. Prima o dopo la loro economia imploderebbe.
16/10/2024
da Remocontro