17/10/2025
da Left
Nonostante le denunce Onu su torture e fosse comuni, la maggioranza ha votato per proseguire la cooperazione con la cosiddetta Guardia costiera libica, aprendo la strada a un nuovo rinnovo automatico del Memorandum del 2017. Da Mahamat Daoud di Refugees in Libya alle Ong del Mediterraneo, cresce la mobilitazione per dire “stop ai fondi a chi tortura”
Il 2 novembre 2025 scade di nuovo la finestra per interrompere il Memorandum tra Roma e Tripoli sul contrasto all’immigrazione illegale. L’accordo – di durata triennale con rinnovo automatico – prevede fondi, addestramento e supporto logistico alla cosiddetta Guardia costiera libica, oltre alla costruzione e manutenzione di centri di detenzione per migranti “irregolari”.
L’Italia sembra aver già scelto la via della continuità: ieri la Camera ha approvato la mozione della maggioranza che chiede di “proseguire la strategia nazionale di contrasto ai trafficanti e di prevenzione delle partenze dalla Libia”, confermando di fatto l’intenzione di rinnovare la validità del Memorandum stipulato per la prima volta nel 2017. Respinte entrambe le mozioni dell’opposizione: quella di Pd, Alleanza Verdi e sinistra, Italia viva e +Europa, che chiedeva di non procedere a nuovi rinnovi automatici e sospendere ogni cooperazione che comporti ritorni forzati in Libia, e quella del M5s, che proponeva di interrompere il rinnovo per consentire una revisione dell’accordo.
«Ho lasciato il Sudan e ho vissuto gran parte della mia vita in campi profughi. Lì ho capito davvero cosa spinge le persone a lasciare la propria terra. Sono stato anche detenuto in un lager per migranti a Tripoli. Quando sono arrivato in Libia, ho trovato una situazione completamente diversa da quella che immaginavo».
A parlare è Mahamat Daoud, uno dei fondatori di Refugees in Libya, un movimento nato dal basso da persone sopravvissute alla detenzione e alla tortura nei centri libici per migranti. È in quelle celle, racconta, che la consapevolezza individuale si è trasformata in azione collettiva: «Nessuno parlava di noi, di ciò che subivamo. Così è nato Refugees in Libya, da un gruppo di persone superstiti ai lager per migranti. Eravamo a Tripoli, in un centro di detenzione, e abbiamo deciso di iniziare a protestare. Il primo ottobre del 2021 abbiamo organizzato la prima manifestazione davanti all’ufficio dell’Unhcr (l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, ndr), seguita da un presidio durato cento giorni, chiedendo visibilità, protezione e rispetto dei diritti umani».
La risposta, però, non è stata il dialogo, ma la repressione: arresti, pestaggi, nuove deportazioni. «Alcuni di noi – racconta Daoud – sono stati rinchiusi in celle frigorifere, senza cibo né acqua. C’erano donne, bambini, anziani. È stato un inferno. Ma abbiamo continuato a denunciare e a provare a farci sentire dall’opinione pubblica globale, perché sapevamo che dietro tutto questo c’erano anche i soldi e le decisioni dell’Europa».
Dal 2017 a oggi, oltre 135 mila persone sono state intercettate in mare e riportate con la forza nei lager libici, secondo i dati di Oim e Unhcr. Numeri che non raccontano “salvataggi”, ma respingimenti delegati alla sedicente Guardia costiera di Tripoli.
Le missioni civili di monitoraggio e soccorso nel mare Mediterraneo, come quelle di Mediterranea Saving Humans e Sea-Watch, e il team del progetto Alarm Phone che raccoglie e rilancia gli sos dei migranti hanno documentato decine di casi di coordinamento diretto tra le autorità italiane e libiche, con navi europee che restano a distanza mentre i migranti vengono catturati e riportati nei centri di detenzione. Un sistema sofisticato che consente all’Europa di dire “non li abbiamo respinti”, ma che produce lo stesso risultato, con la differenza che la violenza resta invisibile.
Il sistema corroborato dal Memorandum è quello di una esternalizzazione della frontiera. Così l’Europa paga perché la Libia faccia il “lavoro sporco”. Motovedette, prigioni e milizie che gestiscono i centri – spesso le stesse coinvolte nel traffico di esseri umani – operano grazie a fondi europei e addestramento italiano. Le denunce di torture, stupri e sparizioni non hanno mai interrotto il flusso di denaro.
«Il Memorandum ha “legittimato” pratiche disumane», spiega Daoud. «Ci sono comandanti dei centri di detenzione libici che dovrebbero essere processati dalla Corte penale internazionale, e invece ricevono addestramento e stipendi. L’Italia e l’Unione Europea sanno tutto questo, e continuano a chiamarla cooperazione».
Il 4 giugno 2025 l’Ufficio dell’Alto commissariato Onu per i Diritti umani ha avviato un’inchiesta sulla scoperta di fosse comuni nei pressi di Tripoli. Secondo le indagini, “decine di corpi” – alcuni carbonizzati, altri conservati in frigoriferi ospedalieri – sarebbero stati rinvenuti in siti riconducibili al gruppo armato Stabilization support apparatus (Ssa), operativo sotto la Presidenza del Consiglio del governo di unità nazionale libico.
Se il governo non cambierà rotta entro il prossimo 2 novembre il Memorandum sarà rinnovato automaticamente per altri tre anni. Le associazioni impegnate nel fermare l’accordo – tra cui Refugees in Libya, Mediterranea Saving Humans, Asgi e altre reti internazionali – chiedono la cancellazione immediata dell’intesa e la fine dei finanziamenti a un sistema di detenzione e tortura che opera con la complicità dello Stato italiano.
In questi giorni, Roma è il cuore degli Action Day contro il Memorandum: una settimana di iniziative, incontri pubblici e presìdi per denunciare la politica dei respingimenti e chiedere la fine della cooperazione con la Libia.
Momento centrale della mobilitazione sarà la manifestazione di sabato 18 ottobre, alle ore 14 in Piazza Vidoni. L’appello delle associazioni è chiaro: “Stop al Memorandum”, basta fondi a chi tortura e detiene, basta complicità europee nei crimini che si consumano ai confini del Mediterraneo. Una voce collettiva che, parte dalle strade di Roma per chiedere all’Italia e all’Europa di scegliere finalmente l’umanità.