THE OLD OAK. Incontro con il regista britannico tornato nelle sale: dalle battaglie dei lavoratori, migranti e residenti, al conflitto in Medio Oriente: «Dobbiamo lottare per uguali condizioni di lavoro e salari in tutto il mondo. Al momento l’internazionalismo più efficace è quello delle multinazionali»
Ken Loach è a Roma per presentare il suo nuovo film, The Old Oak. Uscito ieri nelle sale italiane, racconta i rischi di conflitto ma anche le possibili forme di solidarietà che nascono dall’incontro tra i migranti fuggiti dalla Siria e una comunità segnata dalla deindustrializzazione e abbandonata dalle istituzioni nell’Inghilterra del nord. In questi giorni il regista britannico, 87 anni, ha incontrato centinaia di persone nelle presentazioni presso lo spazio occupato Spin Time Labs e vari cinema della capitale.
Nel suo infaticabile tour alza la voce a sostegno di tutti i lavoratori – migranti e residenti – e per il rispetto del diritto internazionale in Medio Oriente. Lo incontriamo a margine di una tavola rotonda con i giornalisti in un hotel del centro di Roma.
Governo e autorità garante sono intervenuti per limitare lo sciopero nel settore dei trasporti. Cosa direbbe ai lavoratori che per questo non potranno partecipare alla protesta e a quelli che non avrebbero scioperato comunque perché hanno perso la «speranza», parola chiave nel suo ultimo film?
Ostacoli simili sono usati anche in Gran Bretagna e la cosa viene giustificata dicendo che bisogna continuare a erogare i servizi essenziali. Così alcune categorie non potranno mai astenersi dal lavoro al 100%. Ma simili azioni sono anche un segno di debolezza della classe politica: mostrano che lo sciopero può funzionare e fare paura. Può sembrare un momento buio ma è sempre buio prima dell’alba. Comunque la cosa importante è che quando il diritto di sciopero viene attaccato non si tratta di un’aggressione a un singolo sindacato, ma a tutto il movimento dei lavoratori. Perciò serve una risposta unitaria. Tutto il movimento sindacale deve smettere di lavorare. O fai così o perdi. È questa la sfida per i leader sindacali.
Negli ultimi giorni sono esplose molte divisioni nella sinistra europea: la Nupes in Francia, Syriza in Grecia, la Linke in Germania. In quest’ultimo caso tra le ragioni c’è anche un preteso conflitto di interessi tra la classe lavoratrice locale e i migranti. Tema di «The Old Oak».
Le divisioni della sinistra dipendono dalle leadership. Queste dovrebbero spiegare alle persone chi sta distruggendo il pianeta, come le grandi multinazionali che chiedono più fossili per sostenere i loro profitti. Sono le stesse che impongono il lavoro precario e attaccano i sindacati perché non vogliono rispettare conquiste come le otto ore al giorno o le ferie retribuite. Queste grandi corporation competono a livello globale per aumentare lo sfruttamento e con esso i loro profitti. Spesso controllano i media e sostengono la propaganda a favore di questo sistema. Hanno tutto l’interesse a frammentare i lavoratori. Una classe divisa è debole. Come la dividi? Facendo in modo che non se la prenda con chi alimenta la povertà, distrugge i servizi pubblici o fa soldi sul sistema sanitario, ma con le persone che stanno peggio.
I migranti?
Certo, i migranti, i più vulnerabili e poveri di tutti. È chiaro che i migranti non hanno distrutto i nostri sistemi sanitari o creato i senza tetto. Questi fenomeni sono iniziati prima. I migranti fuggono dalla fame, anche se abbiamo le tecnologie per nutrire tutti. Fuggono dalle guerre che hanno fatto collassare i loro paesi. Sono lavoratori che hanno bisogno di aiuto. Vanno integrati nei sindacati. Dobbiamo lottare per uguali condizioni di lavoro e salari in tutto il mondo. Ma al momento l’internazionalismo più efficace è quello delle multinazionali perché sono capaci di creare profitti a livello globale.
In queste settimane da Gaza arrivano continuamente immagini di morte e distruzione. Vede il rischio che, guerra dopo guerra, si generi una sorta di assuefazione?
Quelle foto e quei video sono orribili. Se vedessimo quelli del 7 ottobre lo sarebbero altrettanto. Il mondo non può più continuare a guardare questo atroce massacro. La negazione dei diritti fondamentali dei palestinesi, la violazione del diritto internazionale, il fatto che quelle persone non possano vivere nel loro paese o eleggere il governo sono fatti che conosciamo da decenni. È tempo che le Nazioni unite intervengano, che tutti i paesi del mondo sostengano i palestinesi nella creazione di uno Stato con confini definiti. È una responsabilità internazionale collettiva.
A Londra ci sono state mobilitazioni enormi per Gaza, ma nessuna reazione forte dalle forze politiche. Secondo lei, che due anni fa è stato cacciato dal Labour per aver sostenuto Corbyn e le sue posizioni sulla Palestina, per quali ragioni esiste una frattura così grande tra ciò che sentono le persone e le politiche dei governi, di destra e di sinistra?
Perché l’Occidente ha screditato e minato le Nazioni unite. La Gran Bretagna ha lanciato insieme agli Usa una guerra illegale contro l’Iraq e ucciso quasi un milione di persone. Sfollandone altri quattro o cinque milioni. Lo stesso era successo in Afghanistan. La Gran Bretagna deve riconoscere le proprie responsabilità insieme agli altri paesi occidentali. Accettiamo le nostre colpe del passato e impegniamoci in una risoluzione collettiva dell’Onu che dia giustizia a tutti i popoli della regione, perché possano vivere in pace e sicurezza.
Cosa significano oggi queste due parole?
Il 7 ottobre Hamas ha commesso una barbarie e dei crimini di guerra. Anche il lungo attacco da parte di Israele contro il popolo di Gaza è un crimine di guerra. Mi piace citare la posizione del segretario generale delle Nazioni unite, Antonio Guterres. Credo abbia tenuto un discorso molto saggio dicendo che gli attacchi di Hamas non sono avvenuti nel vuoto. Il contesto che ha citato è quello dell’oppressione dei palestinesi che va avanti da decenni. I palestinesi hanno il diritto di resistere quando i loro diritti vengono negati. Ancora una volta, è responsabilità delle Nazioni unite intervenire. L’Onu ha inviato forze di peace-keeping in altre aree. Perché non può farlo anche per difendere i diritti dei palestinesi?