Sono tante le pagine di associazioni, media e influencer palestinesi che Meta ha censurato o limitato con un "ban ombra". Lo documenta il rapporto pubblicato dal 7amleh -Arab Center for the Advancement of Social Media
Le politiche di censura adottate da Meta, conglomerato tecnologico proprietario di Facebook e Instagram, stanno generando un impatto profondo sui contenuti palestinesi condivisi sulle sue piattaforme. Questa situazione, già oggetto di numerose critiche in passato, ha raggiunto un nuovo livello di attenzione internazionale con l’ultimo rapporto pubblicato dal 7amleh – Arab Center for the Advancement of Social Media. Le testimonianze raccolte da questo centro di monitoraggio rivelano inquietanti di restrizioni, chiusure di account e calo di visibilità che colpiscono influencer, giornalisti e organi di stampa palestinesi, con gravi ripercussioni non solo a livello mediatico, ma anche sociale ed economico. Lo scopo è zittire le voci critiche, manipolare il dibattito pubblico e controllare il flusso di informazioni. Un disegno pericoloso che va ben oltre la semplice censura.
Dal mese di ottobre 2023, coincidente con l’intensificarsi del conflitto israelo-palestinese e l’offensiva israeliana su Gaza, Meta è stata accusata di intervenire in modo discriminatorio contro i contenuti palestinesi. La pratica più frequentemente segnalata è quella del cosiddetto “ban ombra”, una forma di censura meno evidente ma non meno efficace, che comporta una drastica riduzione del coinvolgimento del pubblico senza notifiche o spiegazioni ufficiali. Le conseguenze di queste politiche si riflettono nelle voci di chi le subisce: sono state raccolte venti testimonianze che raccontano di pagine chiuse improvvisamente, account sospesi o limitazioni inspiegabili che hanno danneggiato la capacità di comunicare e di fare informazione.
Tra le voci più significative, spicca quella di Yahya Alsayed, responsabile del gruppo comunitario Ask Jerusalem, che si occupa di fornire informazioni ai palestinesi residenti a Gerusalemme. La pagina del gruppo è stata sospesa per la prima volta nel 2021, durante il tentativo di sfratto di famiglie palestinesi nel quartiere di Sheikh Jarrah, e da allora le restrizioni sono state una costante, influenzando negativamente il coinvolgimento e la capacità di raggiungere il pubblico. Anche dopo il ripristino dell’account, Alsayed ha denunciato il permanere di limitazioni che continuano a ostacolare il lavoro del gruppo.
Un’altra testimonianza arriva dalla redazione di Arabs48, organo di stampa che ha denunciato la cancellazione della propria pagina Facebook per ben due volte, senza alcun preavviso o spiegazione. Anche l’account Instagram risulta colpito da restrizioni che ne limitano la visibilità, con una drastica riduzione del pubblico raggiunto. Dima Kabaha, redattrice del giornale, ha espresso preoccupazione per il futuro della testata, sottolineando come questa situazione impedisca di svolgere un ruolo essenziale nell’informazione. Quando, come in questo caso, le piattaforme digitali rappresentano l’unico mezzo per raccontare la realtà, togliere la parola a chi vive in zone di guerra è come negare loro il diritto di esistere. La censura diventa una nuova forma di violenza, che silenzia le storie e le speranze di un intero popolo.
La situazione non è diversa per molti influencer, i quali hanno subito pesanti limitazioni che hanno compromesso la loro capacità di creare contenuti. Adnan Barq, uno dei volti più seguiti sui social palestinesi, ha raccontato di come il numero di visualizzazioni delle sue storie su Instagram sia passato da una media di 20.000-30.000 a poche migliaia dopo l’inizio della guerra. Il suo collega Ali Obeidat ha subito addirittura la cancellazione dei suoi account per ben 83 volte, perdendo ogni volta l’accesso alle sue piattaforme di comunicazione.
Ancora più allarmante è ciò che emerge da un’altra sezione del rapporto di 7amleh: mentre i contenuti palestinesi vengono limitati o censurati, si registra una diffusione massiva di post in ebraico che incitano all’odio contro i palestinesi. Sono stati contati oltre 15 milioni di post di questo tipo dall’ottobre 2023, svelando un’ingiustizia che rafforza le critiche mosse a Meta per le sue pratiche discriminatorie. Di fronte a questa situazione, Meta si è difesa sostenendo che alcune delle misure adottate, come il declassamento dei contenuti, sono temporanee e volte a ridurre i rischi durante il conflitto. Tuttavia, questa spiegazione non convince chi subisce le conseguenze delle politiche aziendali, accusate di violare i principi fondamentali della libertà di espressione.
Le ripercussioni di queste pratiche non si limitano alla sfera della comunicazione, ma si estendono anche alla sfera personale ed economica. Secondo 7amleh, molti giornalisti e influencer palestinesi stanno vivendo una crescente pressione emotiva e un clima di autocensura per timore di ulteriori restrizioni. Meta è chiamata a rispondere non solo alle critiche, ma anche alle richieste di riforma delle sue politiche. Jalal Abukhater, responsabile dell’advocacy presso 7amleh, ha dichiarato che le pratiche discriminatorie del gigante tecnologico costituiscono una violazione degli standard internazionali e ha sollecitato interventi urgenti per garantire che i palestinesi possano accedere alle piattaforme digitali senza subire repressioni o limitazioni ingiustificate.
Il ruolo delle piattaforme digitali in questa crisi è cruciale, soprattutto considerando le limitazioni imposte ai media internazionali che hanno reso difficile, se non impossibile, l’accesso alla Striscia di Gaza. I social media sono diventati non solo uno strumento di informazione, ma anche un mezzo per chiedere aiuto e mantenere i contatti con i propri cari in una situazione di isolamento estremo. La censura rischia di spegnere queste voci, aggravando ulteriormente la sensazione di abbandono e invisibilità di chi vive in una delle aree più martoriate del mondo.
La richiesta di una maggiore trasparenza e imparzialità nella gestione dei contenuti online non è più rinviabile. Meta si trova ora di fronte a una scelta fondamentale: ascoltare le richieste di chi chiede giustizia o rischiare di perdere la fiducia di milioni di utenti. La libertà di espressione, soprattutto in situazioni di conflitto, non può essere trattata come una questione secondaria o sacrificabile.
20/12/2012
da Left