Trump con l’economia ha qualche problema (mettiamola così), perché le chiacchiere non riescono sempre a coprire i fatti. I numeri sono come pietre, colpiscono e lasciano il segno. Tutto il resto è propaganda politica. O cabaret. Pensate, sta mettendo a ferro e fuoco, con i dazi doganali, produttori, consumatori e mercati dell’intero pianeta per fare «l’America più grande». E la Cina più piccola. Perché di questo poi si tratta, riducendo all’osso la questione.
America più grande e Cina più piccola
Se dopo avere scatenato la Terza guerra mondiale commerciale, i risultati ottenuti saranno quelli vaticinati dal Fondo Monetario Internazionale, forse molti americani si pentiranno amaramente di averlo votato. Nell’Outlook di aprile, infatti, il Fondo ha scritto che l’economia statunitense dovrebbe subire un brusco rallentamento, con una crescita prevista per il 2025 all’1,8% del Pil, in calo rispetto al 2,7% ipotizzato a gennaio. Per il 2026 si prevede un ulteriore rallentamento all’1,7%, in calo rispetto al 2,1% già valutato. Ma il lato paradossale di tutta la vicenda è che, proprio come conseguenza della strategia daziaria di Trump, il Prodotto interno lordo della Cina, anche se leggermente rallentato, in 2 anni si alzerà di ben 8 punti (avanzerà di un doppio 4%).
‘Cassazione’ finanziaria mondiale
Fatti i calcoli e tirate le somme, quindi, in questo momento (la situazione potrebbe anche peggiorare) la sconclusionata guerra delle tariffe, voluta dalla Casa Bianca, sta costando agli americani tre punti e mezzo di distacco rispetto a Pechino. Intendiamoci: il Fondo monetario (cioè la “Cassazione” finanziaria mondiale) ha semplicemente finito di sfondare una porta già aperta a spallate dai mercati. Anche se ieri la Borsa di New York si è un po’ ripresa, lunedì scorso, invece, ha segnato un record negativo di quelli storici. Con un crollo quasi epico, che ha fatto titolare il Wall Street Journal in modo feroce: «Il Dow Jones si avvia verso il peggiore aprile dal 1932, mentre gli investitori lanciano segnali di sfiducia». E il graffiante articolo del Journal proseguiva, puntando il dito specificatamente contro i dazi: «La performance dell’S&P 500 dal giorno dell’insediamento è ora la peggiore per qualsiasi Presidente fino a questo momento, considerando i dati a partire dal 1928», secondo Bespoke Investment Group.
Seconda ‘Grande depressione?
«Le preoccupazioni per le restrizioni commerciali e la prospettiva che Trump licenzi il Presidente della Federal Reserve, Jérome Powell, hanno spinto gli investitori a prepararsi a perdite maggiori in futuro. Stanno arrivando i report sugli utili aziendali, insieme alle previsioni dei dirigenti per i prossimi mesi, penalizzate dai dazi. Pochi credono – conclude il WSJ – che i negoziati dell’Amministrazione con i partner commerciali produrranno risultati abbastanza presto da allentare la tensione». Sfiducia che stride con le mirabolanti promesse del nuovo inquilino dello Studio ovale.
Età dell’oro modello Trump
«Stiamo entrando in una nuova età dell’oro», aveva pomposamente proclamato Donald Trump, dopo essere stato eletto. Detto e fatto. Traumatizzati dalla sua strategia commerciale, che sposta la guerra moderna dalle trincee alle dogane, però, i mercati hanno subito reagito, come un crotalo a cui si pesti la coda. Così, per restare in tema, anche il prezzo del metallo giallo, vero bene-rifugio in tempi di incipiente catastrofe economica, è schizzato alle stelle, rompendo la barriera psicologica dei 3 mila e 500 dollari l’oncia. Frutto di un’ondata di vendite che ha toccato azioni, titoli di Stato e dollari, coinvolgendo investitori istituzionali e risparmiatori. Secondo il Wall Street Journal, il recente rialzo riflette probabilmente l’incertezza economica e finanziaria generata dalle scelte tariffarie di Trump e, più recentemente, dai suoi attacchi alla Federal Reserve. L’oro potrebbe anche beneficiare della diversificazione delle riserve ufficiali delle Banche centrali straniere, che le allontanano dal debito pubblico statunitense».
Termometro oro
Perché il boom dell’oro è solo l’esplosione letterale di un ‘termometro’, quello che serve a misura la febbre di un sistema sempre più inguaiato da barellieri che vogliono fare i cardiochirurghi. E in economia, come in medicina, l’ignoranza mista alla supponenza si paga cara. In sostanza, la crociata protezionistica lanciata dalla Casa Bianca e, forse ancora di più, la mancanza di una linea di politica economica coerente, rischiano di fare saltare il banco. L’economia è fatta di aspettative e se le regole e i protocolli vengono cambiati tutti i giorni, allora non si può fare programmazione d’impresa. Il che significa che i capitali scappano dalle aziende (e quindi dalle azioni) e cercano una collocazione nel mercato obbligazionario, a cominciare dai titoli di Stato. È quello che sta succedendo negli Stati Uniti, dove le continue oscillazioni indotte dagli ordini esecutivi del Presidente, nel delicato settore import-export, stanno letteralmente modificando i comportamenti di mercato. Accelerando, in qualche modo, un processo inesorabile verso una fase di stagnazione, che sarà accompagnata da una ripresa dell’inflazione.
‘Grido di dolore’ dell’Economist
E finiamo col grido di dolore, lanciato dall’Economist a proposito del dollaro Usa, sempre più maltrattato da Trump. «Questo mix di rendimenti dei titoli di Stato in aumento e di valuta in calo – scrive la rivista – è un segnale d’allarme: se gli investitori fuggono nonostante i rendimenti siano in aumento, deve essere perché pensano che l’America sia diventata più rischiosa. Circolano voci secondo cui i grandi gestori patrimoniali esteri stiano vendendo biglietti verdi».
Insomma, Mr. President, stai litigando col mondo intero, per scassare l’economia di Xi Jinping e ti ritrovi con una Cina che crescerà più del doppio degli Usa. Per completare l’opera, finisci di distruggere pure il dollaro, e magari a Pechino ti faranno una statua.
23/04/2025
da Remocontro