Lavoro. Che i nemici del referendum abbiano puntato tutto sull’astensione non deve meravigliare. Uno dei motivi è che l’ideologia della flessibilità del lavoro non è più dominante come un tempo.
Se questo paradosso si verificasse, sarebbe l’ennesima prova del più grande successo recente del capitalismo: una chirurgica opera di distruzione della partecipazione democratica.
Che i nemici del referendum abbiano puntato tutto sull’astensione non deve meravigliare. Uno dei motivi, poco indagati eppure rilevantissimi, è che l’ideologia della flessibilità del lavoro non è più dominante come un tempo.
Qualche anno fa, il dibattito referendario sarebbe stato monopolizzato dagli alfieri del liberismo. Gli apologeti del lavoro flessibile avrebbero declamato le magnifiche sorti e progressive dei contratti a termine e degli appalti deregolati. Avrebbero presentato la precarizzazione come anticamera di un mondo di alti salari e benessere diffuso. Avrebbero additato i promotori del referendum come preistorici incapaci di cogliere il potenziale del nuovo capitalismo, finalmente liberato dai lacci della regolamentazione.
Viceversa, nel dibattito di queste settimane i propagandisti del «precario è bello» si sono visti davvero poco. A riabilitare un po’ il mantra della flessibilità ci hanno provato timidamente Maurizio Ferrera sul Corriere della Sera e pochi altri. Ma rispetto alle fanfare del passato, la retorica liberista appare molto più dimessa.
Come si spiega un tale arretramento ideologico? Per quale ragione i temi del liberismo economico non vengono più agitati con la medesima spocchia di un tempo?
Un motivo rilevante sta nel cosiddetto esame di realtà. L’evidenza scientifica di un intero trentennio ha smentito tutte le tesi dei precarizzatori. L’esempio più lampante è la vecchia idea secondo cui la flessibilità avrebbe aumentato l’occupazione. Questo antico cavallo di battaglia del liberismo si è rivelato una vera e propria truffa ideologica.
Basti notare un fatto: nell’ultimo decennio rilevato, l’88 percento delle pubblicazioni su riviste accademiche internazionali mostra che la precarizzazione non stimola affatto le assunzioni e che le tutele non aumentano i disoccupati. Il dato è così cristallino che i più autorevoli propugnatori della deregulation sono stati costretti a riconoscerlo. La Banca Mondiale ha ammesso che «l’impatto della flessibilità del lavoro è insignificante o modesto». Il Fondo monetario internazionale ha confessato che le deregolamentazioni del lavoro «non hanno effetti statisticamente significativi sull’occupazione». E l’Ocse ha preso atto che le cosiddette riforme del lavoro hanno avuto «un impatto nullo o limitato sui livelli di occupazione».
Insomma, quando Renzi e i suoi si beavano del fatto che dopo il Jobs act l’occupazione era aumentata, dimenticavano di segnalare che nei paesi in cui la precarizzazione non era cresciuta l’incremento dei posti di lavoro era stato maggiore. Il valore scientifico dei loro proclami valeva dunque quanto quello del proverbiale stregone: che con le sue danze tribali si vanta di portar la pioggia.
Ma allora, se i contratti precari non creano occupazione, quali sono i loro reali effetti? Anche su questo punto l’evidenza scientifica è ormai nitida. La ricerca oggi prevalente indica che la flessibilità rende i lavoratori meno sindacalizzati e più docili, e per questa via deprime i salari, peggiora le condizioni generali di lavoro e deteriora la sicurezza e la salute dei dipendenti.
Quando pure le grandi istituzioni mondiali ammettono che la precarietà non porta l’annunciata bengodi, non meraviglia che i liberisti della nostra provincia si ritrovino orfani di argomenti.
Anche per questo motivo Meloni e gli altri nemici del referendum hanno preferito una diserzione silenziosa: non spiegare, non motivare, non entrare nel merito, al limite recarsi in punta di piedi alle urne adottando l’espediente un po’ vigliacco di non ritirare le schede.
Se gli apologeti del precariato verranno sorpresi da un’inattesa partecipazione democratica, sarà per loro un duro colpo. A date condizioni, potrebbe rivelarsi la scintilla di una nuova fase della lotta di classe, in Italia e non solo.
07/06/2025
da Il Manifesto