Emmanuel Macron ha promesso: entro l’anno prossimo, il diritto all’aborto sarà scritto nella costituzione francese. La decisione è motivata dal quadro che sta emergendo in varie parti d’Europa, a cominciare da paesi come la Polonia, in cui il governo di destra uscente ha reso praticamente impossibile per una donna interrompere una gravidanza anche quando la sua vita è a rischio.
Anche in Italia, come sappiamo, esiste una legge che consente (e non garantisce) l’accesso all’interruzione di gravidanza, ma la sua applicazione è minacciata sia dall’alto numero di obiettori presenti nelle strutture pubbliche, che porta chi vuole o deve fare ricorso all’IVG a rivolgersi ai privati. E se in una clinica convenzionata l’intervento in sé è gratuito, le visite necessarie per ottenerlo non lo sono: le donne che vivono in aree ad alta percentuale di obiettori si vedono costrette a pagare per esercitare un elementare diritto.
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E forse il problema è proprio che quello che viene chiamato “diritto” per molti non lo è affatto. Allora proviamo a capire perché, a parlare di come trattiamo l’aborto, e del perché ottenerlo è così difficile. Partiamo da un presupposto che dovrebbe essere già chiaro, e invece spesso sfugge alla vista: la gravidanza è un fenomeno che riguarda a maggioranza le donne AFAB, cioè assegnate alla nascita al genere femminile, e in misura minore gli uomini trans e le persone non binarie. Tutte queste soggettività possono trovarsi in stato di gravidanza, e non volerla proseguire per qualsiasi motivo. Dato che la gravidanza si svolge dentro il corpo dell’essere umano, e non fuori, la sua gestione ha a che vedere con l’autodeterminazione: obbligare qualcuno a portare avanti una gravidanza contro la sua volontà è una violenza.
La legge 194, come è stato ribadito più volte negli ultimi anni, è una legge che non garantisce l’accesso all’aborto, ma lo consente a determinate condizioni. La lettura della legge è ampia abbastanza da permettere a chi richiede l’interruzione di accedervi, ma non senza prima avere ottenuto il consenso di uno psicologo e di un medico, e avere atteso sette giorni. In pratica, dal momento in cui fai la richiesta al momento in cui riesci finalmente a ottenere di fare l’intervento (o assumere la pillola abortiva RU486, lì dov’è disponibile) il tuo utero è commissariato. Il tuo corpo non ti appartiene, è sotto sequestro, in attesa che tu prenda una decisione che con ogni evidenza avevi già preso quando hai fatto la richiesta della visita: ma si sa, le donne sono un po’ bambine, non sanno quello che vogliono, magari ci pensano un po’ e poi cambiano idea.
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Questo esproprio, così come l’attinente sospensione del principio di autodeterminazione, è possibile solo lì dove il valore della fertilità femminile è stabilito secondo regole arcaiche, che mettono gli uomini (e in generale, chi non può generale) al centro della società. Non parliamo di oggi o di ieri, ma di millenni di storia che ci gravano addosso, e che attraverso la religione si sono ammantate di sacralità. Il divieto di aborto viene giustificato infatti con il principio della “sacralità” della vita, il cui inizio viene arbitrariamente collocato al concepimento.
La decisione è arbitraria, appunto, perché il valore che assegniamo alla gravidanza come fenomeno varia a seconda delle culture ed è soggetto a interpretazione, come ogni altro aspetto di quella che chiamiamo comunemente “etica”. Nemmeno la vita delle persone umane già nate ha davvero un valore universale: gli antiabortisti americani non hanno, in media, alcun problema con la pena di morte. Vale a dire un provvedimento che sopprime la vita di una persona già esistente nel mondo. Tutto questo può essere o meno discutibile, ma è impossibile sfuggire a un dato: l’aborto non si verifica in un vuoto culturale, ma in una cultura che non consente alle donne di disporre di sé.
Dico “donne” anche se prima ho specificato che le donne non sono l’unica soggettività che può generare (ed è importante ricordarlo, perché non farlo complica l’esistenza alle persone trans e non binarie che chiedono di accedere all’IVG) perché l’atteggiamento culturale nei confronti dell’aborto si è formato quando la percezione dei generi era binaria, e le donne erano considerate poco più che animali da riproduzione. Controllare la loro fertilità, la loro sessualità e la legittimità della discendenza era vitale per il mantenimento dell’assetto patriarcale: il processo di liberazione da quelle pastoie è ancora parziale, perché ancora troppa gente affida la sua identità alla quantità di potere che può agire all’interno di una struttura sociale rigida, in cui i ruoli sono distribuiti in maniera inflessibile. Ogni volta che sentite qualcuno affermare (in tono più o meno querulo) che “Il patriarcato non esiste”, state sicuri che quella persona nel patriarcato ci vive benissimo o almeno così crede.
La promulgazione della 194 non ha rimosso lo stigma intorno alla procedura abortiva: la formulazione della legge, al contrario, contribuisce ad alimentare l’idea che l’IVG non possa che essere vissuta con colpa, dolore e intima lacerazione. Una narrazione imposta a chi vuole abortire, a prescindere da come si sente, in parte proprio dal periodo di attesa (in cui si suppone che la lunga riflessione porti a scegliere il “bene”, quindi a cambiare idea) e in parte dalla retorica luttuosa con cui si circonda un intervento in realtà piuttosto comune nella vita delle donne di ogni età e classe sociale. L’aborto può quindi essere vissuto solo come violazione di un ordine naturale, e il dolore sarebbe la giusta punizione per il libero esercizio della propria sessualità. Il boicottaggio della RU 486 è legato a questo desiderio di punizione: femmina peccatrice che vuoi andare contro le leggi di Dio, abbi almeno la decenza di soffrire per guadagnartelo.
Impedire alle donne di accedere all’aborto è funzionale al mantenimento del controllo sui corpi femminili e su tutti i corpi che possono generare. Facendo un’ipotesi fantascientifica: se vivessimo in una società matriarcale, in cui le donne fossero in cima alla piramide del potere e potessero disporre dei corpi degli uomini, l’aborto sarebbe del tutto normalizzato come parte della gamma delle scelte riproduttive a disposizione dell’essere umano, la contraccezione sarebbe accessibile e sicura, e sarebbe in gran parte a carico del maschio della specie, responsabilizzato a controllare la sua fertilità per non doverne poi subire le conseguenze. Fantascienza, appunto. Distopia, si direbbe, senza pensare alle implicazioni di questa definizione rispetto alla realtà che viviamo.
Non sappiamo ancora con quale formula i francesi sceglieranno di assicurare alle cittadine della repubblica il diritto a disporre della loro fertilità. È importante però interrogarci sul perché una modifica costituzionale di questo tipo ci sembra impossibile nel paese la cui carta costituzionale assegna ancora alle donne “l’essenziale funzione” familiare. Le risposte potrebbero non piacerci.
Immagine in anteprima: Frame video Euronews via YouTube
08/11/2023
da La Valigia blu