Una quasi-guerra mondiale in cui la gente non muore sotto le bombe, ma è costretta a muoversi verso un futuro più cupo, fatto di fragili equilibri economici spezzati e di risorse accaparrate dai più forti. L’Asia è in crisi, perché la Cina è in crisi. E, con un inevitabile effetto-domino, le ripercussioni si stanno velocemente spalmando sul resto del pianeta.
L’Asia è in crisi, perché la Cina è in crisi
La Banca Mondiale ha emesso una previsione abbastanza sfavorevole sulla crescita della Cina e su quella dei Paesi in via di sviluppo dell’Asia sud-orientale. Il motivo della frenata? Semplice, «il protezionismo statunitense e l’aumento esponenziale dei livelli di debito». Tradotto, ‘danni collaterali’ dell’offensiva occidentale-americana per mantenere l’attuale ma pericolante «assetto geopolitico unipolare». Regole mirate in cui, o ci si adegua alle tagliole dei mercati finanziari e di condotta diplomatica, o si finisce in mezzo a una strada, come lo Sri Lanka.
«Est modus in rebus»
Nessuno vuole difendere le strategie espansionistiche di Pechino, prima di tutto in economia. Ma, dicevano i latini, «est modus in rebus», c’è modo e modo di fare le cose. Scatenare una guerra doganale con la Cina, come hanno fatto prima Trump e poi Biden, adducendo un minestrone di motivazioni ideologiche, è stato un boomerang, ma rimbalzato in casa altrui. Prima di tutto per il Terzo mondo e poi anche per l’Europa. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, invece, gli strateghi della Casa Bianca i conti li faranno con gli elettori, alle Presidenziali del 2024.
Report Banca Mondiale
Per ora fermiamoci al report della Banca Mondiale. Dunque, tutto il blocco dell’Asia del sud e del sud-est avrà la crescita più scarsa degli ultimi cinquant’anni. Contribuendo a rafforzare quella ‘tempesta perfetta’ che sta infiacchendo la domanda internazionale e alterando la catena di approvvigionamento produttivo nel pianeta. La crisi che tocca Paesi come Vietnam, Malesia, Thailandia, Indonesia e Filippine, tanto per citarne alcuni, sta facendo pagare un prezzo salato a quasi un miliardo di persone. Senza contare ovviamente i cinesi e mettendo da parte i seri problemi di crescita che hanno anche Pakistan e India.
Secondo il Financial Times, l’aggressività economica degli americani nei confronti di Pechino, introdotta nelle pieghe di due leggi importanti, sta danneggiando notevolmente anche nazioni incolpevoli.
Protezionismo Usa mascherato
L’Inflation Reduction Act e il Science and Chips Act (quello sui semiconduttori) hanno finito per ostacolare le importazioni, di materie prime e semilavorati ad alto valore aggiunto, in arrivo da Paesi ‘sostituti’ della Cina. Che adesso sono rimasti al palo, creando vivo malcontento nei confronti di Washington. Che per alcuni resta un solido alleato militare, almeno sulla carta. La globalizzazione, però, non è un mito distrutto dalla pandemia e nemmeno un processo che si possa controllare ‘a geometria variabile’. Per molti aspetti e in molti settori produttivi la Cina resta indispensabile, come fornitore di prima istanza.
Questo continua a essere vero (in parte) per gli Stati Uniti, ma soprattutto per l’Europa. Sostituirla nel breve periodo non sarà facile, costerà moltissimo e farà inevitabilmente alzare il prezzo finale dei beni prodotti.
Tra ‘America first’ e MEGA
Sia Joe Biden che a inizio presidenza giura che «non permetterò mai alla Cina di scavalcare gli Stati Uniti, come prima potenza economica mondiale», o la vecchia strategia trumpiana del ‘Make America Great Again’, acronimo MAGA per l’America di nuovo grande’. Ma il prezzo di questa sfida lo stanno pagando già adesso tutti i consumatori del pianeta a colpi spesso insostenibili di rincari. Da questo fatto di partenza, al ‘controllo internazionale dello sviluppo’.
Controllo internazionale dello sviluppo
Tutti i Paesi più poveri o quelli che, comunque, hanno ambizioni di crescita accelerata, chiedono capitali da investire in programmi infrastrutturali e di rapida industrializzazione. Per dirla corta e netta, in queste circostanze, chi presta comanda. Nel senso che può porre delle condizioni che non sono solo strettamente finanziarie, ma sconfinano nell’alveo politico e istituzionale. In questo campo il braccio armato dell’Occidente è il Fondo monetario internazionale. Un’istituzione che dovrebbe essere ecumenica, ma dove i diritti di voto sono proporzionali (in teoria) al capitale versato. Gli Stati Uniti detengono il 17% del potere di voto. E per cambiare lo statuto, guarda tu, ci vorrebbe l’85%.
Tra potenza e prepotenza
Di fatto,Washington ha il diritto di voto e di veto. Tanto da entrare in conflitto con la Presidente, Kristalina Georgieva, che vorrebbe dare alla Cina lo stesso peso degli americani, dato che mettono, gli stessi soldi. L’Amministrazione Biden, però, si è immediatamente dichiarata contraria alla proposta richiamando i soliti discorsi sull’autocrazia e la superiorità del modello democratico occidentale. In pratica si vogliono evitare pericolosi connubi tra il governo di Pechino e i Paesi ‘non allineati’. Mentre, nell’intervista rilasciata al Financial Times, la Presidente Georgieva sottolinea come l’atteggiamento cinese nell’FMI sia stato sempre costruttivo.
Gli Stati Uniti obiettano che la strategia di Xi Jinping, invece, è quella di chiudere sempre accordi bilaterali con le nazioni in via di sviluppo. Quindi, sembra di capire, gli Usa si chiedono: che se ne fa del Fondo monetario internazionale, se qua ci stiamo già noi, ‘a lavorare?’.
03/10/2023
da Remocontro