19/10/2025
da Il Manifesto
Hanno fatto la pace. Attacchi record dei settler israeliani ai palestinesi impegnati nella raccolta delle olive
Mohamed Dik non possiede un uliveto. Abita in città, a Betlemme, e la sua vita quotidiana è lontana da quella dei contadini. Eppure, la raccolta annuale delle olive per lui è un periodo speciale. È un modo per ritornare alla natura e, allo stesso tempo, per partecipare a un evento fortemente legato all’identità palestinese. «Con conoscenti e amici mi sposto tra Betlemme ed Hebron e provo a dare un aiuto volontario» ci dice, preparandosi ad appoggiare la scala a un albero. «L’ulivo – aggiunge – è parte della Terra Santa, è menzionato anche nel Corano. I nostri antenati hanno custodito questi alberi per secoli, li hanno protetti e curati. Noi facciamo lo stesso».
OGGI MOHAMED non protegge solo gli ulivi. Con la sua presenza, assieme a quella di una ventina di volontari palestinesi, ebrei israeliani e stranieri che fanno riferimento al gruppo Combatants for Peace (Cfp), cerca di garantire un minimo di protezione al suo amico Jamil, che da due anni prova a raggiungere l’uliveto della sua famiglia. I coloni di Neve Daniel, a sud di Betlemme, considerano quel pezzo di terra parte della «zona di sicurezza» del loro insediamento. «Non ci permettono più di entrare» ci racconta Jamil, chiedendoci di non riportare il suo cognome. «Siamo venuti due o tre volte, ma siamo stati allontanati dall’esercito perché l’area è stata dichiarata zona chiusa. Non possiamo far altro che osservare da lontano gli ulivi e la nostra terra, e ricordare com’era piena di vita, di erbe come la salvia e il timo».
La raccolta nell’uliveto di Jamil non dura molto. Dopo meno di mezz’ora di lavoro, viene interrotta una prima volta dall’arrivo di due guardie di sicurezza di Neve Daniel. Sono armate di mitra M16 di ultima generazione e portano gli immancabili occhiali da sole. Si occupa di loro Mia Biran, la coordinatrice di Cfp, per evitare che vadano direttamente dai palestinesi a interrogarli e intimidirli. «Ci parlo io, continuate la raccolta» dice al gruppo. Il tentativo non ha successo. Dopo pochi attimi arrivano anche alcuni soldati. Sono riservisti, a giudicare dai capelli grigi di alcuni di loro. Un giovane palestinese, Issa, velocizza la raccolta: sa che non andrà avanti per molto. «Quanto accade è la regola» dice «stiamo assistendo a una delle tante difficoltà che devono affrontare i nostri contadini. I coloni li aggrediscono, gli impediscono di raccogliere le olive. E se vogliono, chiamano i soldati a cacciarli via». I militari aumentano e a loro si aggiungono anche poliziotti. Jamil e i volontari hanno avuto il tempo di riempire solo qualche secchio.
QUEST’ANNO La raccolta delle olive in Cisgiordania sarà più rapida. Il motivo è proprio la minaccia dei coloni israeliani. Nelle campagne che circondano Kobar (Ramallah) la stagione si è aperta e continua con i boati delle granate stordenti e il fumo dei gas lacrimogeni. Ieri decine di agricoltori, con scale, secchi e teli, sono stati costretti ad abbandonare gli uliveti su ordine dell’esercito e su pressione dei coloni. Eppure, la stessa Corte Suprema israeliana ha riconosciuto il loro diritto ad accedere ai campi di Qanater e Daak, a ovest del villaggio. «Hanno aperto il fuoco per farci indietreggiare e hanno lanciato i lacrimogeni» ha detto uno di loro. Dietro c’è una storia fatta di restrizioni e violenze causate da Halamish, uno dei 150 insediamenti coloniali che punteggiano le colline della Cisgiordania. Anche in questo caso, i contadini non possono accedere a campi e frutteti per «ragioni di sicurezza». La strategia, qui e in altri distretti, è chiara: isolare le comunità agricole e spingerle ad abbandonare la terra. Sempre ieri, coloni armati hanno ordinato di allontanarsi subito ai raccoglitori di Turmus Ayya.
Secondo la Commissione palestinese per il monitoraggio e la resistenza alla colonizzazione, quella del 2025 è «la raccolta delle olive più pericolosa degli ultimi decenni, con danni economici molto gravi». Riferisce di 48.728 alberi danneggiati o abbattuti, di cui 37.237 ulivi. Nelle zone di Nablus, Salfit, Hebron e Masafer Yatta, le pattuglie militari, assieme ai coloni negli avamposti sorti come funghi dopo il 7 ottobre 2023, hanno imposto decine di zone chiuse intorno a interi uliveti. Organizzazioni israeliane per i diritti umani, come B’Tselem e Yesh Din, hanno più volte denunciato che l’uso delle restrizioni militari ha l’unico scopo di ridisegnare la mappa della Cisgiordania. L’Ocha (Onu) segnala che dall’inizio del 2025 sono state documentate più di mille aggressioni in circa 230 comunità della Cisgiordania. I morti per spari di coloni e soldati nelle campagne palestinesi sono almeno undici. Dal 7 ottobre 2023 in poi, 1.001 palestinesi sono stati uccisi in Cisgiordania.
NELL’ULIVETO di Jamil la raccolta è terminata. I militari ordinano a tutti di allontanarsi. Volontari e attivisti risalgono sul minibus che li aveva portati in Cisgiordania. Alcuni sono di Tel Aviv, come Carly Rosenthal. «Al mio ritorno a casa, come faccio sempre, racconterò quanto è accaduto oggi» ci dice. «So già che tanti, nonostante le mie spiegazioni, non riconosceranno la gravità degli abusi che subiscono i palestinesi. Piuttosto mi diranno che hanno paura per me, perché potrei essere aggredita dai palestinesi. Capito? Per loro il problema non sono i coloni o l’esercito, che pure mi creano tanti problemi, ma i palestinesi!».