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La guerra dell’Occidente contro i bambini di Gaza

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02/10/2025

Da Left

Simona Maggiorelli

La speranza che ci ha riempito il cuore in queste ultime settimane è quella che viene dalla società civile che in tanti Paesi europei e in Italia si è mobilitata per la Palestina e i diritti umani

Due anni dal 7 ottobre 2023, quando un feroce attacco terroristico di Hamas ha colpito centinaia di giovani israeliani che ballavano pacificamente in un rave. Poi da parte del premier israeliano Benjamin Netanyahu e del suo governo di ultradestra la vendetta su un intero popolo, come punizione collettiva. Una guerra spietata contro la popolazione palestinese, che in larga parte è fatta di giovani che neanche erano nati quando Hamas vinse le elezioni a Gaza nel 2006. Al grido di «combattiamo questi animali umani» (così il ministro israeliano Gallant) è avvenuta la distruzione totale di Gaza, la persecuzione di due milioni di civili si è fatta sistematica ed è diventata genocidio come ha documentato con chiarezza una commissione indipendente delle Nazioni Unite già nel marzo 2025, parlando fin da allora di «atti plausibili di genocidio». Già il 29 dicembre 2023 il Sudafrica aveva presentato denuncia contro Israele alla Corte internazionale di giustizia (Cig) accusandolo di violare la convenzione Onu sul genocidio del 1948, denuncia che è stata supportata da molti altri Paesi. Il 21 novembre 2024 la Corte penale internazionale (Icc) ha emesso un mandato di arresto internazionale contro Netanyahu e contro il ministro Gallant e per i capi di Hamas (nel frattempo uccisi).

Il lavoro dei tribunali internazionali è essenziale, ma lento, per giunta intralciato dalle sanzioni promulgate dal presidente Usa Trump, nei fatti braccio destro ed esecutivo del premier israeliano. Trump è stato il primo a preconizzare scenari di speculazione edilizia sulla Striscia, fantasticando una esotica Gaza riviere, costruita sulla fossa comune di almeno 70mila cadaveri – questo, secondo l’Alto commissariato Onu per i diritti umani, è il numero dei palestinesi che sono stati uccisi fino all’estate del 2025. Poi sarebbero arrivate le analoghe proposte di Blair (sì, ancora lui) e di Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze israeliano, che ha parlato apertamente della Striscia di Gaza come di una «miniera d’oro immobiliare».

L’Unicef ha definito quella su Gaza «la guerra contro i bambini». La rivista scientifica The Lancet, in uno studio pubblicato a luglio 2025 ha stimato che le vittime potrebbero superare di molto sopra la quota 185mila, considerando i morti indiretti per fame e mancanza di cure.

E intanto la Striscia è colpita anche dalla carestia. Non c’era mai stata in quest’area nella sua millenaria storia di commerci e scambi con altri Paesi del Mediterraneo. Non è il frutto del fato, ma di una deliberata volontà del governo israeliano che ha sigillato gli ingressi nella Striscia, impedito gli aiuti umanitari, colpendo in primis i bambini gazawi. Quello a cui abbiamo assistito in questi due anni – e che abbiamo raccontato solo grazie al lavoro coraggioso dei colleghi di Gaza, che per questo hanno perso la vita a frotte- non sono solo i bombardamenti, l’assedio, l’attacco via terra- ma appunto anche l’uso della fame come arma, la distruzione di ospedali, scuole e infrastrutture idriche, la crudeltà di colpire i civili in fila per un tozzo di pane negli hotspot della famigerata e armata Gaza humanitarian foundation, ulteriore frutto perverso della alleanza Usa e Israele. A tutto questo si aggiunge che Gaza è diventata per Netanyahu (e per chi gli vende o gli compra armamenti) un laboratorio di sperimentazione di armi automatizzate letali.

Dirette da sistemi di intelligenza artificiale come The Gospel, Lavender, Where’s Daddy selezionano obiettivi umani accettando margini di errore che equivalgono a decine di vittime civili per ogni presunto combattente: sono stati usati per colpire cosiddetti centri nevralgici di Hamas e hanno ucciso a grappoli donne, bambini, anziani. Per il governo di Bibi le loro morti sono solo “effetti collaterali” in vista della reconquista delle terre che, nella visione messianica del governo israeliano, gli sarebbero state assegnate direttamente da Dio. Un progetto di annessione che parte da lontano, pianificato almeno fin dalla Nakba del 1948, quando oltre 700mila palestinesi furono scacciati dalle loro terre e abitazioni. Un piano che è stato perseguito per anni da Israele che, di fatto, occupa Gaza dal 1967 e che in tutti questi 58 anni ha messo in atto politiche di pulizia etnica e di apartheid dei palestinesi nella West Bank, come ampiamente documentato anche da organismi indipendenti tra cui Amnesty International. Il progetto coloniale di Israele, che dal 2018 è diventato uno stato ebraizzato a base etnico-religiosa non si è mai fermato. E ora arriva allo zenith. In Cisgiordania, ad esempio, non si tratta più di isolate iniziative violente di coloni israeliani. Il mese scorso la Knesset, il parlamento israeliano, ha approvato provvedimenti che sanciscono l’annessione de facto della Cisgiordania. I coloni ultra ortodossi, spesso armati e violenti, avanzano sotto la protezione dell’Idf, mentre ministri della destra messianica, come Smotrich e Ben Gvir, rivendicano la «riconquista di Giudea e Samaria» in nome delle Scritture. Un messianismo politico che intreccia integralismo religioso e speculazione edilizia: anche qui l’obiettivo è costruire insediamenti sulle macerie di un popolo.

Non a caso la relatrice speciale dell’Onu Francesca Albanese ha parlato in un rapporto di «economia del genocidio»: un sistema in cui la distruzione materiale e simbolica dei palestinesi alimenta filiere militari e tecnologiche, dalle imprese edilizie agli algoritmi di sorveglianza, in alleanza con molte aziende e realtà internazionali. Per questo le sue denunce sono state bersaglio di attacchi e sanzioni personali da parte degli Stati Uniti. Di fronte a tutto questo, in questi due anni, le istituzioni internazionali hanno oscillato tra timide condanne e impotenza. Fa male soprattutto il balbettio dell’Europa. La Ue non ha sospeso nemmeno l’Accordo di associazione con Israele, nonostante la violazione palese dei valori fondativi, come il rispetto dei diritti umani di cui si parla nell’articolo 2. Si è nascosta dietro i veti di Orban, dietro i silenzi di Merz e di Meloni allineata al Likud, continuando la cooperazione militare e cibernetica. Gli Usa, soprattutto con Trump, hanno garantito copertura diplomatica, militare e finanziaria a Israele, e l’Europa di Von der Leyen e l’Italia di Meloni si sono accodate. Sul finire di questi drammatici due anni, tuttavia qualcosa si è mosso, con il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte di Francia, Gran Bretagna, Spagna, Irlanda e Norvegia. Un atto politico e simbolico che prova a rompere la narrazione israeliana di un popolo “inesistente” e apre la strada a nuove pressioni diplomatiche. Ma senza sanzioni, embargo sulle armi e sospensione degli accordi commerciali, il riconoscimento rischia di restare un gesto appunto solo simbolico.

La speranza che ci ha riempito il cuore in queste ultime settimane è quella che viene dalla società civile che in tanti Paesi europei e in Italia si è mobilitata per la Palestina e i diritti umani. Mentre tanti governi tacciono, le piazze d’Europa e del Mediterraneo si riempiono. Centinaia di migliaia di cittadini chiedono la fine del genocidio a Gaza, la sospensione delle forniture militari, il rispetto delle sentenze internazionali. In Italia, studenti e lavoratori per primi hanno espresso nelle piazze il loro “Not in our name”. Sono «i senza potere», come li chiama la scrittrice Paola Caridi, intervistata su Left, che hanno impedito finora che l’annientamento totale del popolo palestinese avvenisse e nel silenzio assoluto. Certo, la distanza tra la volontà popolare e le scelte dei governi non è mai stata così ampia. L’Occidente, che si era presentato come custode del diritto internazionale dopo il 1945, oggi perde ogni autorevolezza. Non può più parlare di diritti umani se li applica a geometria variabile. Se non fermiamo il genocidio a Gaza non sarà solo un problema palestinese: riguarderà la tenuta stessa dell’ordine mondiale. Perché, come ammoniva Hannah Arendt già nel 1948, il nazionalismo etnico-religioso porta sempre con sé la possibilità della catastrofe. Per questo parlare di “genocidio” non è una questione semantica. È un dovere giuridico e civile, l’unico modo per fermare la distruzione di un popolo e salvare il senso stesso della parola giustizia.

Foto di Leda Di Paolo – La manifestazione spontanea del 2 ottobre a Roma in solidarietà alla Global Sumud Flotilla aggredita in acque internazionali dalla marina israeliana

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