Mentre prosegue il massacro a Gaza, non cessano i bombardamenti in Libano. Ma a preoccupare è anche il nuovo fronte siriano.E Israele approfitta della frammentazione e della divisione dei Paesi del Medio Oriente
In una intervista a Channel 14 News il primo ministro israeliano aveva affermato che l’accordo con il Libano era stato firmato proprio perché lui aveva ottenuto esattamente ciò che voleva ottenere. Aveva aggiunto che in Libano Israele avrebbe colpito Hezbollah a morte e, soprattutto, avrebbe creato le condizioni per il ritorno degli israeliani nel Nord. Così è stato: nella guerra contro tutti che Israele ha scatenato in Medio Oriente dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre prosegue il massacro pianificato di Gaza e non cessano i bombardamenti pressoché giornalieri contro vari obiettivi in Libano.
Le parole di Benjamin Nethanyahu non erano solo parole programmatiche tese a riscuotere un sostegno politico interno dai propri elettori in un panorama che pare sempre più scivolare verso la destra più oltranzista, purtroppo erano anche la presa di coscienza del fatto che i Paesi musulmani in Medio Oriente sono definitivamente frammentati e incapaci di arginare l’aggressività dimostrata da Israele negli ultimi due anni.
Fra le monarchie del Golfo, nonostante alcune dimostrino un’opposizione sulla carta intransigente alla guerra di Israele, la priorità sembra essere quella di mantenere una relazione con il governo di Tel Aviv.
Riad ha ufficialmente congelato i dialoghi per giungere a una normalizzazione dei rapporti con lo Stato israeliano, come ribadito in ottobre (e riportato ad esempio da Middle East Monitor) ma continuano trattative e tavoli di aggiornamento informali specialmente nel campo della sicurezza e i seppur minimi progressi che si fanno sono ben visti soprattutto in Arabia. In questi ultimi giorni tra l’altro Riad ha dichiarato che per ottenere un patto per la cooperazione nella difesa con gli Usa la sua posizione potrebbe ammorbidirsi sulla questione della soluzione a due Stati, avvicinandosi a Israele. Questo dimostra che l’intransigenza saudita è solo una posizione da esibire nell’ambito diplomatico internazionale mentre la realtà dei fatti è ben diversa.
A Dubai al contempo si guarda piuttosto a perseguire alcuni succulenti accordi con Israele, come quelli sullo sviluppo congiunto di nuove tecnologie e magari ad approfondire il Comprehensive Economic Partnership già in vigore da aprile 2023. La comunanza di interessi economici scoraggia gli Emirati a prendere posizioni realmente radicali di appoggio alla causa palestinese.
La posizione del Qatar era forse quella diplomaticamente più difficile, dal momento che sul suo territorio trovano asilo alcuni dirigenti di Hamas ma, come riporta anche CNN, il Paese sta mettendo alla porta anche i portavoce del gruppo palestinese.
Anche il Consiglio di cooperazione del Golfo (che raccoglie l’adesione di Arabia, Bahrein, emirati Arabi Uniti, Kuwait Oman e Qatar) va poco oltre compunte prese di posizione che chiedono una modifica del comportamento di Israele
L’Iran dal canto suo è isolato nel campo opposto (quello sciita) ma soprattutto si sente isolato, come dimostrano non solo il comportamento ai limiti del remissivo di fronte agli scontri di ottobre ma anche l’appello del presidente iraniano a difendere il legittimo governo siriano (suo alleato), lanciato in extremis come un grido di aiuto a tutti i Paesi musulmani Agenzia stampa ufficiale del governo di Teheran).
L’appello di Teheran inquadra parzialmente il problema della ulteriore frammentazione dei Paesi musulmani dell’area del Golfo, (ben al di là della tradizionale contrapposizione fra sciiti e sunniti) anche per ragioni geopolitiche ed economiche, riguardo alla guerra che Israele sta conducendo con il beneplacito Usa. Si tratta di un solco che ormai confina e divide ogni singolo Paese in Medio oriente e che più si approfondisce e più consente ad Israele di esercitare un’influenza profonda che lega a doppio filo i vari Paesi al fatto di dover subire le sue politiche internazionali.
Quanto sta avvenendo in Siria, dove estremisti sunniti hanno rimosso la dittatura alauita supportati dalla Turchia e con ogni probabilità dai servizi segreti Usa è probabilmente l’inizio di una guerra ancora più devastante di quella che ha coinvolto la Russia dal 2015. In questo scenario, con buona pace di quanto raccontato da molta stampa italiana, i veri problemi potrebbero essere appena iniziati, come dimostra l’attacco portato dagli Usa in Siria con circa 80 obiettivi colpiti come riporta Jane’s Military e la contemporanea aggressione di Israele, pronto a infilarsi in ogni angolo di instabilità per iniziare una nuova guerra. La situazione, dalla quale a ben vedere esce vincitrice solamente la Turchia, è sintomo anch’essa della frammentazione del mondo musulmano e figlia della guerra di Israele. Si tratta peraltro di uno sviluppo sinistro e che sta già portando ad una riedizione dell’incubo vissuto con l’epopea del sedicente Stato islamico.
13/12/2024
da Left