Siria in fiamme. I jihadisti, rinobilitati sui nostri media come “i ribelli”, avanzano in modo fulmineo sostenuti dalla Turchia di Erdogan, da Israele e dagli Usa che hanno qui la base militare
Aleppo, come l’irachena Mosul, è una delle «città martiri» del Medio Oriente e forse era destino della Siria che da qui tutto dovesse ricominciare, da quella qalat, la millenaria cittadella fortificata, che non l’ha mai salvata da nessuna guerra, dove anni fa raccolsi sui gradoni uno degli ultimi chiodi rimasti conficcati per secoli nel grande portale di legno frantumato dalle battaglie brutali tra l’esercito siriano e i jihadisti. Per anni la città, fino al 2016, è stata sotto le bombe dei ribelli, dei barili esplosivi del regime di Damasco, dei raid dei jet russi, sgretolata, lacerata, affamata e con migliaia di cadaveri sepolti in fretta nelle fosse comuni.
La tregua in Libano non era ancora cominciata che il primo ministro israeliano Netanyahu aveva già annunciato il suo piano di destabilizzazione della regione: lo stato ebraico vuole avere la possibilità di concentrarsi sull’Iran e la battaglia contro la sua influenza coinvolge inevitabilmente la Siria di Assad dove Israele occupa dal 1967 le alture del Golan e tiene nel mirino da anni i suoi rivali. E così da Idlib i demoni del jihadismo, si sono risvegliati con un’avanzata fulminea sostenuti dalla Turchia di Erdogan, da Israele, dagli Stati uniti, che hanno qui la base militare a guardia ai pozzi petroliferi, contrastati dalle deboli forze di Assad, dai pasdaran iraniani, dagli ultimi Hezbollah rimasti e dall’aviazione russa, intervenuta con ritardo e forse con poca convinzione. E così i tagliagole jihadisti sono tornati a nobilitarsi sui nostri media come “i ribelli”.
Tra Putin e Netanyahu, che negli ultimi giorni sono tornati in contatto, intercorre un vecchio patto non scritto: Mosca, intervenuta direttamente a sostegno di Assad nel 2015 _ quattro anni dopo la rivolta cominciata nel marzo del 2011 _ ha sempre debolmente protestato contro i centinaia di raid dello stato ebraico in Siria e questo nonostante Assad sia un alleato di Mosca come pure lo sono l’Iran, fornitore di droni a Mosca, e gli Hezbollah. Bisogna ricordare che senza la regia del generale iraniano Qassem Soleimani, ucciso a Baghdad nel 2020 dagli americani, lo stato islamico (Isis) e i gruppi jihadisti affiliati di Al Qaida avrebbero conquistato dopo Mosul in Iraq anche Aleppo e forse Damasco.
Ma il patto Putin-Netanyahu ha resistito al punto che Israele ha persino bombardato, senza concrete reazioni di Mosca, un edificio dell’ambasciata iraniana a Damasco. Ci sono 1,5 milioni di cittadini israeliani di lingua russa e 80-100mila israeliani in Russia, mentre gli oligarchi russi fanno affari tra Tel Aviv a Dubai e il ben noto miliardario russo Abramovic da qualche tempo è diventato il più ricco cittadino di Israele. Per tutti questi legami redditizi dal punto di vista economico il dittatore russo e il premier israeliano – che al Cremlino è stato sei volte – cercano di non pestarsi i piedi, al punto che Netanyahu non sopporta il leader ucraino Zelenski pur di origine ebraica. Sul Libano e la Siria l’ambiguità russa è palpabile.
Come pure avevano resistito, tra mille difficoltà, fino a questa offensiva jihadista i patti scaturiti dal cosiddetto “processo di Astana” con il quale Russia, Iran e Turchia si erano accordati per stabilire le zone di de- escalation che includevano il governatorato di Idlib e i distretti adiacenti di Hama, Aleppo e Latakia. Ma con la guerra del Libano e i durissimi colpi assestati da Israele a Hezbollah e agli alleati di Teheran il fronte siriano si è clamorosamente indebolito. In poche parole l’Iran non è più in grado con i suoi pasdaran – nel mirino costante di Israele – di tenere in piedi pezzi strategici della Siria – porti e autostrade – che erano serviti finora come anelli decisivi nella catena di rifornimento militare.
Erdogan ha quindi deciso di approfittarne dando il via libera ai jihadisti con l’obiettivo di impadronirsi di altri pezzi della Siria del Nord, tenere sotto controllo i curdi e poi magari usare questi territori per liberarsi di milioni di profughi siriani, forse il suo obiettivo più stringente. Assad è assai debole, l’Iran è in crisi, Hezbollah deve ripiegare e Putin è sempre più assorbito dall’offensiva in Ucraina. Così ora il leader turco – che strepita assai sul destino dei palestinesi senza fare nulla di concreto – ha nuove carte in mano per negoziare con Putin e Assad, con gli americani e anche con Israele.
Quanto a Netanyahu il suo obiettivo immediato è impedire a Hezbollah di ricostruire il proprio arsenale militare, in parte distrutto con i bombardamenti a tappeto in Libano. Le filiere del transito di armi e dei componenti dei missili assemblati nelle strutture clandestine di Hezbollah passano dalla Siria. Israele bombarda regolarmente obiettivi in territorio siriano legati all’Iran e a Hezbollah: poche ore prima dell’entrata in vigore del cessate il fuoco libanese l’aviazione israeliana ha distrutto tre varchi tra la Siria e il Libano, lanciando un messaggio chiaro. Poi Netanyahu ha chiesto a Putin di bloccare i traffici di Hezbollah nel porto siriano di Latakia dove c’è la base navale russa.
La destabilizzazione della Siria serve a Netanyahu per colpire il bersaglio grosso del premier, ovvero l’Iran: questa è la parte più importante del suo piano che sottoporrà Trump una volta insediato alla Casa Bianca. Piegati gli Hezbollah, decimati i palestinesi, frantumata la Siria, pronti a colpire l’Iran, l’asse israelo-americano vede più vicino il progetto “imperiale” di fare dello stato ebraico l’incontrastata superpotenza della regione.
01/12/2024
da Il Manifesto