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La marea di Roma per la Palestina: «Siamo un milione»

La marea di Roma per la Palestina: «Siamo un milione»

Politica italiana

05/10/2025

da il Manifesto

Giansandro Merli

«Ho attraversato il corteo pensando alla mia gente, la mia famiglia, i miei amici, per provare a descrivere cosa sto vedendo. Ma come palestinese è difficile dirlo in poche parole: provo un misto di orgoglio, emozione profonda, dolore. Non è solo una protesta, è un respiro collettivo, persone di ogni tipo pronte a dire: vi vediamo, siamo con voi. Quello che voglio è la fine del genocidio e la Palestina libera, il prima possibile». Imran viene da Gerusalemme Est, in Cisgiordania, e si trova in Italia da alcuni giorni.

Sono stato in piazza pensando alla mia gente, vorrei descrivere loro ciò che ho visto ma è difficile. Provo orgoglio, emozione e doloreImran, palestinese di Gerusalemme

IL FIUME di manifestazioni, blocchi e scioperi iniziato un mese fa alla partenza della Flotilla ed esploso con lo sciopero generale del 22 settembre ieri è diventato marea. Un corteo così grande nella Capitale non si vedeva da 20 anni, la protesta della Cgil contro la cancellazione dell’articolo 18 nel febbraio 2002 o quella contro la guerra in Iraq un anno dopo. Questa volta, quando è ormai scesa la sera, gruppi di giovani si scontrano con la polizia intorno a piazza Vittorio e piazza San Giovanni.

Sono passate oltre sei ore dall’inizio ufficiale del corteo, preceduto da diversi pre-concentramenti in tante parti della città. Alle 14.30 Porta San Paolo è già piena oltremisura, i manifestanti devono partire subito per fare spazio al flusso di persone che continua ad arrivare. La marea è eterogenea e variegata, ci sono studenti e lavoratori, giovanissimi e anziani, gruppi organizzati e tanta gente venuta in ordine sparso per alzare la voce contro il genocidio.

FRANCESCA HA 14 ANNI, frequenta il liceo scientifico Newton di Roma. Ha in mano un cartello che dice: «Fate silenzio quando i bambini dormono, non quando muoiono». «L’errore peggiore che possiamo commettere è non dire niente davanti a questa atrocità. Essere qui è il nostro modo di opporci a quello che stanno facendo a Gaza», afferma.

Più avanti ci sono gli studenti di Osa e gli universitari di Cambiare rotta. «È ridicolo che Meloni sostenga che manifestare non serve a niente. Un governo degno di rappresentare il popolo italiano avrebbe dovuto interrompere immediatamente l’export di armi verso Israele. Noi continueremo a mobilitarci e bloccare tutto, dalle università alle strade», dice Filippo di Cambiare rotta.

IL SOLE BATTE FORTE, la piazza è strapiena e prova a lasciarsi la Piramide alle spalle. Un ragazzo ha un cartello nello zaino: «Manifestant* affamat* venite qua». Si chiama Luca, viene da Bologna e fa lo «sfoglino»: è esperto nello stendere la pasta fresca. «Ho fatto dei panini al parmigiano da distribuire a chi li vuole. Lo faccio per questa comunità».

Lungo viale Aventino una lettrice del manifesto agita una grande vignetta di Maicol&Mirco, pubblicata giovedì in prima pagina. Due personaggi si tengono la mano. Uno dice: «Mi sento una goccia nel mare». L’altro risponde: «Due gocce». «Ci sentiamo una goccia nel mare ma siamo tantissimi – afferma Chiara – Noi veniamo dalle Marche, dalle zone del terremoto, sappiamo cosa significa perdere tante cose, anche se ovviamente quello che abbiamo vissuto non è paragonabile a ciò che subiscono gli abitanti della Striscia».

RISALIRE IL CORTEO non è semplice: le strade sono zeppe di gente, la mobilitazione è fitta, la partecipazione esonda nelle vie laterali. Dal Circo Massimo al Colosseo il colpo d’occhio è impressionante. Francesca è venuta da Firenze e ha con sé un cartello che recita: «Volevamo liberare la Palestina, la Palestina ha liberato noi». «Sono mesi che scendiamo in piazza per cercare di fermare questo genocidio – racconta – Ma in realtà la Palestina ci ha svegliato dal torpore: siamo qui per dire no all’economia di guerra che ci toglie servizi, welfare, scuole e ospedali. La resistenza dei palestinesi ha aiutato anche noi».

A metà corteo c’è lo striscione «Gaza we are coming» della Global Sumud Flotilla, la missione che ha fatto da innesco alle manifestazioni di settembre e ottobre. «Oggi è una giornata storica, che segue un’altra giornata storica. Siamo commossi, perché se il nostro piccolo progetto di quaranta barche ha dato vita a tutto questo significa che ne valeva la pena», afferma Maria Elena Delia, portavoce italiana della Gsf. Ieri un altro gruppo di attivisti, tra cui il collaboratore del manifesto Lorenzo D’Agostino, ha fatto ritorno in Italia dopo la detenzione in Israele, ma la missione della Flotilla non sembra essere finita. «Siamo solo all’inizio, per mare e per terra. Siamo nati contro l’inazione e l’indifferenza dei governi e continueremo a batterci perché la mancanza di integrità dell’esecutivo Meloni è senza limiti. Continueremo con la forza di tutta questa gente», conclude Delia.

Siamo solo all’inizio, per mare e per terra. Siamo nati contro l’inazione dei governi e continueremo con la forza di tutta questa genteMaria Elena Delia, Gsf

«Questa risposta scalda il cuore, ci fa sentire meno soli e meno sole, dopo tanti presidi in cui eravamo in sei, pure con quaranta gradi. È bellissimo vedere che finalmente questo Paese si è svegliato», dice poco più indietro l’attrice Paola Michelini (che il 12 ottobre sarà ospite del nostro festival).

IL CORO CHE riecheggia più spesso è «Free free Palestine». A migliaia, a ogni altezza del corteo, cantano: «L’Italia lo sa da che parte stare, Palestina libera dal fiume fino al mare». Lo slogan accusato a torto di antisemitismo e perfino vietato in alcuni paesi europei rimbalza di bocca in bocca, dagli adulti ai bambini.

Piaccia o no due anni di genocidio in streaming, di immagini di corpi straziati, pulizia etnica, città rase al suolo e disumanizzazione dei palestinesi da parte di Netanyahu e dei suoi sodali hanno scavato un solco nell’opinione pubblica. Le canzoni per Gaza vanno insieme a quelle contro Tel Aviv, mai così diffuse e numerose. Un gruppo di scout laici di Colli Albani ripete forte: «Tout le monde deteste le sionisme». Altri rilanciano con «Uccidono le donne, uccidono i bambini, Israele Stato di assassini» e «Siamo tutti antisionisti».

IN PIAZZA ci sono i lavoratori del Gruppo autonomo portuali (Gap) di Livorno, che nelle ultime settimane ha fermato navi israeliane e cariche di armi. «Ne abbiamo già bloccate due, ne dovrebbero arrivare altre: siamo pronti a fermarle ancora. È bellissimo vedere così tante persone unite nella stessa lotta», dice Marco dei Gap. «Meglio un pisano in casa che un Netanyahu all’uscio», scherzano gli altri rullando i tamburi che danno il ritmo ai cori.

Nel frattempo la testa del corteo ha invaso piazza San Giovanni. I manifestanti issano una bandiera palestinese tra le mani della statua di San Francesco, contornata di fumogeni. «Siamo oltre un milione», dicono dal camion di apertura. E ancora: «Facciamo un minuto di rumore per la Palestina». La piazza esplode in un applauso, mentre tante donne tirano fuori dalle tasche le chiavi di casa, agitandole come accade nelle manifestazioni femministe.

IN MEZZO ALLA GENTE sbuca uno striscione con scritto «7 ottobre: giornata della resistenza palestinese». A reggerlo non ci sono dei palestinesi, ma un gruppetto che a giudicare dalle maglie di alcuni sembra venire dalla Tuscia. Di sicuro non interpreta il sentire generale di una piazza determinata ma lucida come non mai.

Il corteo al Colosseo (foto Alessandra Tarantino/Ap)

Il corteo al Colosseo (foto Alessandra Tarantino/Ap)

Alcune centinaia di metri più dietro il corteo continua a sfilare. Su via Labicana, in uno spezzone finito in coda, ragazzi e ragazze si coprono il volto. A un certo punto parte una deviazione improvvisa verso sinistra: «I giovani si riprendono le strade della città contro il genocidio in Palestina. Andiamo a Termini in corteo selvaggio», dicono dal megafono.

A passo svelto almeno duemila manifestanti puntano verso la stazione dei treni per tentare di bloccarla, come avvenuto nei giorni scorsi in altre città. A poche decine di metri dall’ingresso, però, si trovano di fronte uno sbarramento di blindati e agenti. Svoltano in fretta verso piazzale Esquilino, alle spalle di Santa Maria Maggiore. Arriva l’idrante, partono i primi lacrimogeni, mentre dal corteo volano sassi e bottiglie. Un ragazzo che sembra minorenne prende una manganellata in testa e cade a terra. Perde sangue. I feriti saranno diversi.

POCO PIÙ IN LÀ un centinaio di manifestanti restano chiusi tra la grata della chiesa e tre cordoni di polizia. Alzano le mani e cantano «Palestina libera». Saranno tutti identificati. Un altro gruppo si trova nella stessa situazione in via Lanza, scendendo giù verso metro Cavour. La tensione sale tutto intorno. Rivoli di corteo tentano di raggiungere le persone in stato di fermo. Tra San Giovanni e Piazza Vittorio partono i tafferugli. Qualche macchina e diversi cassonetti sono dati alle fiamme. Ci sono cariche e nuovi fermi (mentre andiamo in stampa ne risultano 11, più un arresto).

Il governo Meloni si giocherà la carta dei “violenti” e degli scontri per provare a delegittimare la protesta. Stavolta però, di fronte a una manifestazione così imponente e nel mezzo di un genocidio di violenza inaudita, rischia di servire a poco.

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