07/10/2025
da Il Manifesto
Al tempo di Gaza .Perfino i governi europei più vicini a Tel Aviv hanno dovuto prendere qualche distanza. Il disegno egemonico ed espansivo israeliano non ha più nulla a che fare con il 7 ottobre
Che fine ha fatto il 7 ottobre, la memoria di quel sanguinoso pogrom che i miliziani di Gaza scatenarono due anni fa contro inermi cittadini israeliani? La risposta più diretta e immediata è che è finito sepolto sotto decine di migliaia di morti e una montagna di rovine. All’indomani della strage del 7 ottobre Israele fu oggetto di una estesa solidarietà. Tuttavia non mancarono in diversi paesi esponenti e militanti della sinistra che accecati da fanatismo antisraeliano salutarono il massacro come un atto di liberazione. Dall’altra parte anche il più timido accenno, privo di ogni intento giustificatorio, al contesto di oppressione e sofferenza in cui quell’attacco era maturato fu subito tacciato di antisemitismo filoterrorista. Comprensibilmente, le modalità raccapriccianti dell’incursione dei miliziani non lasciavano spazio a divagazioni storico-politiche.
Ma cosa è cambiato due anni dopo nell’opinione pubblica mondiale e nei rapporti tra Israele e i suoi alleati? Quasi tutto. Perfino i governi europei più vicini a Tel Aviv, hanno dovuto alla fine far ricorso a un’espressione, che più ipocrita e viscida non poteva essere, come «reazione sproporzionata», per nominare eufemisticamente il massacro di 70mila persone e l’immane devastazione della striscia di Gaza da parte dell’Idf. Insomma Netanyahu avrebbe semplicemente esagerato. Ma in questa «esagerazione» c’è una logica. Vi è infatti qualcosa che il governo di Israele voleva ad ogni costo seppellire attraverso un’azione smisuratamente devastatrice. Non certo la memoria dei suoi morti e delle violenze subite, ma quella del suo fallimento, del mito infranto di una intelligence infallibile e dell’esercito più efficiente e tempestivo del mondo, garante di una protezione ermetica dei cittadini israeliani. A questo scopo, per riscattare la classe dirigente e ristabilire il prestigio del suprematismo militare israelita e degli inafferrabili 007 infiltrati per ogni dove, nonché restituire consistenza alle sue minacce, lo stato ebraico ha deciso di colpire indiscriminatamente e ovunque, di radere al suolo città, villaggi, quartieri e palazzi, non solo a Gaza e in Cisgiordania, ma dalla Siria allo Yemen, dal Libano all’Iran al Qatar. Di porsi al di fuori e al di sopra di ogni regola del diritto internazionale e di ogni ragionevole moderazione.
La «dismisura» diveniva il cuore della politica israeliana. Al servizio di un disegno egemonico ed espansivo che col 7 ottobre e la sicurezza del paese non aveva da tempo più nulla a che fare.
Man mano che le operazioni militari si allargavano e approfondivano, pure la loro narrazione cambiava di tono. Sparivano, anche perché smentite dall’evidenza dei fatti, le celebrazioni delle qualità etiche e democratiche dell’Idf, le finte inchieste sulle sopraffazioni e le violenze gratuite da parte dei soldati israeliani, i bombardamenti chirurgici e l’attenzione per l’incolumità dei civili, fino ad arrivare al tiro al bersaglio sulle persone in attesa di cibo. L’esercito «più morale del mondo» lasciava volutamente la scena a quello più spietato, vendicativo e indiscriminato nell’uso della forza. Ogni palestinese un terrorista o un suo complice, ogni edificio una «infrastruttura di Hamas».
Con questo sfacciato cambio di tono in gran parte dell’Europa diveniva praticamente impossibile mettere a tacere il moltiplicarsi delle denunce dei crimini di guerra commessi dall’esercito israeliano, reprimere le manifestazioni sempre più partecipate a favore della Palestina, assimilare al terrorismo simboli e slogan, come avveniva durante il primo anno di guerra, soprattutto in Italia e Germania. Anche l’accusa di antisemitismo, rivolta in una prima fase contro ogni critica indirizzata all’azione politica e militare di Israele, che aveva esercitato una certa deterrenza soprattutto a sinistra, è stata talmente abusata, stravolta e strumentalizzata, da perdere di forza e significato. Se si denuncia l’intera Onu, come covo di antisemiti, non si può pretendere di essere presi sul serio. Nonostante si registri effettivamente una ripresa di vecchi e nuovi sentimenti antisemiti in Europa anche tra quelli che stigmatizzano la guerra di Netanyahu, però sulla base di torbidi presupposti antiebraici.
Ma intanto l’immagine e la credibilità di Israele hanno subito altri colpi micidiali: l’entusiastica condivisione della grottesca idea trumpiana di trasformare Gaza, una volta sterminati e deportati i suoi abitanti, in una riviera di lusso fonte di lucrosi affari immobiliari è già apparsa abbastanza ripugnante.
Si aggiungono poi le ripetute esternazioni dei due ministri dell’estrema destra nazionalista che tengono in piedi il governo di Netanyahu e che nessuno stato anche solo formalmente democratico potrebbe mai tollerare. Fino ad oggi i governi europei hanno cercato di ignorarle per non essere obbligati a troncare i rapporti con un governo che annovera tra i suoi ministri fautori della superiorità razziale ebraica e del diritto divino allo sterminio dei nemici. Personaggi che non hanno nulla da invidiare ai tagliagole dell’Isis o ai Talebani e che sfoggiano orgogliosamente la propria ferocia.
Di pari passo con le difficoltà dei governi europei nel salvaguardare i rapporti politici e affaristici con questa Israele, cresce in tutta Europa un imponente movimento di solidarietà con i palestinesi che incrocia però anche diverse altre linee di conflitto: dall’erosione degli spazi democratici al riarmo, dal nazionalismo xenofobo alle diseguaglianze e all’avanzata dei nuovi fascismi. Per dimensioni e partecipazione questo grande movimento filopalestinese ha un precedente: l’imponente ondata di manifestazioni e proteste in tutta la Germania dopo il convegno dell’estrema destra a Potsdam intento a pianificare la «remigrazione», ossia la deportazione di massa degli stranieri. A ben vedere c’è più di una affinità tra questi due movimenti europei nello spirito antifascista e antisuprematista in lotta contro quell’idea di purezza, omogeneità sociale e proprietà etnica del suolo, che accomuna gli Smotrich e i Ben Gvir ai neonazisti europei.