Ogni 25 settembre dovrebbe essere il giorno in cui lo Stato si guarda allo specchio
Venti anni dopo, la memoria di Federico Aldrovandi è un dolore che si rinnova e una cartina tornasole dell’Italia che abbiamo deciso di diventare. Un ragazzo di diciotto anni, nato il 17 luglio 1987, disarmato, incensurato, lasciato morire sull’asfalto, con i polsi ammanettati e il volto tumefatto, mentre quattro agenti lo “bastonavano di brutto”. Così, senza vergogna, dissero via radio.
A Ferrara, quella notte del 25 settembre 2005, non è morto solo un ragazzo: si è infranta l’illusione che lo Stato sia sempre garante della sicurezza. Si è affermata invece la possibilità — concreta, tangibile — che chi dovrebbe proteggere possa uccidere, e poi insabbiare, e poi tornare al proprio posto. I poliziotti condannati per omicidio colposo rientrarono in servizio nel 2014. La pena, tre anni e mezzo, fu ridotta dall’indulto a sei mesi. Come se la vita di un diciottenne valesse meno di un permesso non timbrato.
Federico non è stato ucciso solo dalla violenza fisica ma da un sistema che ha mentito, coperto, deviato. Dai manganelli spezzati ai verbali manipolati. Dai primi comunicati alla versione smentita dei “pali contro cui si sarebbe sbattuto da solo”. Dai funzionari chiamati a coprire, fino alle accuse pubbliche contro la madre, “colpevole” di voler sapere. E da un ex ministro, Carlo Giovanardi, che osò definire Federico un “eroinomane”, aggiungendo infamia alla morte.
Ogni 25 settembre, la famiglia Aldrovandi ripete il suo calvario, ricordando un figlio lasciato morire per strada mentre gli veniva negata anche la dignità di un lenzuolo. Ma ogni 25 settembre dovrebbe essere anche il giorno in cui lo Stato si guarda allo specchio. E ha il coraggio di stanare i traditori, i torturatori e gli assassini. Anche quando indossano la divisa.
18/07/2025
da Left