Non si sono fermati mai. Da quando a dicembre 2021 hanno avviato le azioni di disobbedienza civile non violenta, gli attivisti di Ultima Generazione (Ug) sono andati dritti come un treno. Nonostante insulti, critiche, attacchi, denunce, teoremi giudiziari. Dopo alcune incomprensioni iniziali hanno ottenuto maggiore riconoscimento da storiche organizzazioni ambientaliste, come Greenpeace o Legambiente, e movimenti più recenti, su tutti i Fridays For Future. «Hanno capito che non siamo ragazzini sprovveduti, che facciamo sul serio. È la persistenza», dicono nel cortile di uno spazio sociale romano dove sono ospiti.
QUEST’ESTATE ANDRANNO in giro per lo Stivale a parlare di collasso climatico, siccità, incendi. Sono convinti di incontrare pubblici disposti a sentire le loro ragioni e persone con voglia di mettersi in gioco. Anche perché, sostengono, le dimensioni del disastro stanno diventando sempre più concrete, come mostrano il crollo del ghiacciaio della Marmolada, la frana di Ischia e le alluvioni nelle Marche o in Emilia-Romagna. Secondo l’Istat la preoccupazione per i cambiamenti climatici ha fatto un balzo nel 2022: riguarda il 56,7% della popolazione contro il 52,2% dell’anno precedente.
COSÌ UG SPERA di convincere sempre più persone dell’urgenza di agire, per portare già dall’autunno le forme di disobbedienza su un livello più alto e di massa. «Si stanno avvicinando in tanti, anche se poi non tutti entrano nella “resistenza civile”. È questo il concetto che ci anima: siamo in guerra, ci stanno ammazzando, la crisi ecologica è enorme. Noi vogliamo combattere, in modo non violento», dice Carlotta Muston, 33 anni. Ha fatto interposizione in Palestina – dove «ho scoperto di essere bianca», racconta – e attraversato movimenti femministi e anti-razzisti. Lavorava come consulente per università e Ong, a partita Iva. Ha lasciato tutto per la battaglia sul clima.
NEI PRIMI 18 MESI Ug ha realizzato 120 azioni. Tanti blocchi stradali, dal traforo del Monte Bianco alle strade della capitale, e mani incollate sulle opere d’arte, la Primavera di Botticelli o le Forme uniche della continuità nello spazio di Boccioni. Una zuppa di piselli lanciata su un Van Gogh e otto chili di farina sull’auto dipinta da Andy Warhol. Gli attivisti si sono incatenati nella Cappella degli Scrovegni e al passaggio del giro d’Italia. Hanno imbrattato le vetrine di Eni e si sono calati dalla tangenziale Est di Roma. Le azioni più eclatanti sono state i litri di vernice tirati con gli estintori su Senato, ministero della Transizione ecologica, Teatro alla Scala e Palazzo Vecchio. E poi il carbone vegetale gettato nelle fontane della Barcaccia, di Trevi e dei Quattro Fiumi per colorarle di nero.
HANNO COLLEZIONATO oltre 2mila denunce, 125 fogli di via (una 90ina a Roma), 250 sanzioni amministrative, 20 Daspo urbani. La Digos, che è riuscita a prevenire solo due iniziative, li tampina sotto casa e li bracca negli spostamenti. Continua a distribuire denunce per le violazioni dei fogli di via. Loro continuano a disobbedire anche a questi. In totale sono un centinaio gli attivisti che hanno partecipato in prima persona alle azioni. Altrettanti sostengono la campagna in forme differenti. L’obiettivo è ottenere il massimo risultato comunicativo da un numero contenuto di partecipanti. Una strategia che però ha un costo soggettivo molto alto. Le persone più attive hanno ricevuto fino a 50 denunce. Le accuse di blocco stradale, imbrattamento, danneggiamento e manifestazione non autorizzata si stanno accumulando. Per molti potrebbero aprirsi le porte del carcere. A Padova, intanto, in cinque sono accusati di associazione a delinquere.
«È UNA COSA CHE SAPEVAMO dall’inizio. Farsi arrestare è parte della disobbedienza a cui ci ispiriamo. Mostrare che persone comuni sono disposte a sacrificare la libertà in nome di un bene superiore è un punto di forza», racconta Davide Nensi. Ha 23 anni ed è nato a Treviso. Fino a poco tempo fa studiava astronomia a Padova. L’ha mollata per dedicarsi a tempo pieno a Ug. Tra i modelli di riferimento ha i Freedom Riders, che nel 1961 sfidarono la segregazione razziale sugli autobus statunitensi, e Act Up, che dalla fine degli anni ’80 si batte per i diritti delle persone sieropositive. «La lotta contro il collasso climatico dà un senso più grande alla mia vita. Non mi sono mai sentito così libero come quando sono finito in cella la prima volta, per dei blocchi stradali», aggiunge Nensi.
DALL’INIZIO DEL 2023 l’organizzazione ha concentrato le azioni su una singola richiesta: stop a tutti i sussidi pubblici ai combustibili fossili. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) a livello globale nel 2022 sono stati il doppio del 2021: mille miliardi di dollari. Ug nasce nell’autunno di due anni fa come una costola di Extinction Rebellion, per passare all’azione con maggiore flessibilità e determinazione. Nell’aprile seguente si autonomizza per entrare nella rete A22. «Un gruppo di progetti interconnessi impegnati in una folle corsa: provare a salvare l’umanità», recita il sito. Vi partecipano Dernière Rénovation (Francia), Letze Generation (Germania e Austria), Just Stop Oil (Uk) e altre reti da Stati Uniti, Svizzera, Svezia, Norvegia, Nuova Zelanda, Australia.
REALTÀ UNITE DALLA PRATICA del conflitto non violento e sostenute dal Climate Emergency Fund. Un crowdfunding globale messo su dal regista di Don’t look up Adam McKay per raccogliere donazioni – anonime, affinché nessuno possa esercitare influenze – a sostegno di chi si batte per «risvegliare il pubblico sugli effetti dell’emergenza climatica». Per questi attivisti il dibattito sulle sue cause è chiuso, come del resto per la stragrande maggioranza degli scienziati. Il punto è capire come invertire la rotta rompendo quella sorta di rimozione collettiva, che chiamano anche «dissonanza cognitiva», che permette alle persone di andare avanti con il business as usual nonostante ciò che accade al pianeta. Una parte del lavoro è l’analisi dei sentimenti delle persone comuni, di cui hanno grande rispetto, e poi la cura emotiva del gruppo, «necessaria perché siamo una comunità basata sul conflitto».
«CI ACCUSANO di catastrofismo o millenarismo. Ma non diciamo che sta finendo il mondo. Diciamo che stanno venendo meno le condizioni che ci hanno permesso di vivere come fatto finora. E che siamo l’ultima generazione in grado di fare qualcosa», dice Tommaso Juhasz, 30 anni. Ha studiato scienze politiche e lavorato come operaio agricolo. Quando ha percepito sulla propria pelle gli effetti del cambiamento climatico ha riconsegnato il decespugliatore e si è licenziato per «entrare nella resistenza civile».
«I PERCORSI CHE CI HANNO portato alla stessa scelta sono diversi. Per me a monte c’era una grossa sensazione di malessere e impotenza politica», racconta Simone Ficicchia. La questura di Pavia ha chiesto di metterlo sotto sorveglianza speciale, ma il tribunale di Milano ha stabilito che «non è socialmente pericoloso». Studiava storia. Ha abbandonato l’università per l’attivismo. Ha 21 anni. «I miei genitori parteciparono al G8 di Genova. Io ero nella pancia. Mia madre non sapeva ancora di essere incinta», racconta.
TRA I TESTI DI RIFERIMENTO dei ragazzi ricorre spesso Deep Adaptation, un saggio pubblicato nel 2018 da Jem Bendell, professore dell’università britannica della Cumbria. Sostiene che i cambiamenti climatici porteranno al collasso sociale, politico ed economico. Di fronte a questa catastrofe gli attivisti sono convinti che qualsiasi strumento di protesta sia legittimo, ma debba rimanere nel marco della non violenza. Per ragioni etiche e strategiche. «Se vogliamo scardinare un sistema strutturalmente oppressivo e violento dobbiamo prefigurare da subito l’alternativa», dice Muston. Le fa eco Juhasz: «La non violenza serve a spiazzare il potere che da te si aspetta una reazione di altro tipo. Ed è necessaria a evitare le degenerazioni seguite sempre alle rivoluzioni violente». Quella per cui si battono gli attivisti di Ug è davvero una trasformazione rivoluzionaria: ripensare rapidamente le basi del modo di produzione capitalista, del rapporto tra economia e ambiente, dell’estrattivismo.
PER QUESTO, rispetto ad altre campagne di disobbedienza civile «tematiche», vincere sarà più difficile. «Razionalmente sappiamo che non otterremo a breve ciò che chiediamo, ma speriamo di innescare una reazione più grande, che vada oltre noi – dice Nensi – In ogni caso protestare è semplicemente la cosa giusta: è inaccettabile continuare a far finta di nulla».
01/06/2023
Abbiamo ripreso l'articolo
da Il Manifesto