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La posta in gioco sui referendum

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La premessa è bene che sia chiara: ai referendum dell’8 e 9 giugno su lavoro e diritti si va a votare per cinque SI.

La materia in discussione attiene alle condizioni di precarietà e schiavitù in cui è stato trascinato il mondo del lavoro da anni di leggi e misure che l’hanno devastato, restituendo una realtà fatta di bassi salari, stragi sul lavoro, precarizzazione e massimizzazione dello sfruttamento.

Per anni governi, padroni e sindacati ne hanno negato gli effetti e legittimato le conseguenze, contribuendo così alla regressione sociale e civile del paese.

La partita dei referendum sta rivelando anche tutto questo e chi ne porta le responsabilità.

E’ decisamente indecente – ma emblematica – la fronda dentro il cosiddetto campo largo che sta ad esempio sabotando il referendum per l’abolizione del Jobs Act, ovvero l’ultimo dei provvedimenti dopo il Pacchetto Treu e la Legge Biagi, che hanno reso un inferno la condizione di milioni di lavoratrici e lavoratori. Il fatto che sia stato approvato da un governo a guida Pd – quello di Renzi – non sarà mai un dettaglio.

Ma anche tra i sindacati complici c’è chi si dimostra più complice di altri come nel caso della Cisl, che non a caso non scioperò contro il Jobs Act nel 2014 né in anni più recenti. La Cisl da tempo sembra voler assumere la fisiologia del sindacato unico fascista e corporativo del tutto allineato ai governi di turno.

Ma non c’è da sorprendersi. Nel 2012, contro la infame Legge Fornero sulle pensioni, Cgil Cisl Uil fecero uno sciopero di “tre ore”. Un chiaro indicatore che il manovratore europeo – in quel caso Monti – non andava disturbato.

La stessa Cgil che ha promosso i referendum, in questi anni non ha certo brillato nel contrastare la regressione complessiva delle condizioni dei lavoratori. La doppiezza tra la roboanza delle dichiarazioni e la capitolazione nei contratti, ha accompagnato e materializzato l’arretramento subìto nel tempo, soprattutto quando a Palazzo Chigi si sono alternati i governi “amici”. I recenti ripensamenti sulla inaccettabilità di alcuni contratti sono benvenuti ma decisamente tardivi, soprattutto se rimarranno episodi e non un ripensamento strategico.

Si arriva dunque alle urne referendarie non con una stagione di lotte sindacali alle spalle – se non in alcune categorie come i trasporti e la logistica – ma come sostitutivo delle stesse.

La posta in gioco sulle conseguenze del Jobs Act in materia di licenziamenti e contratti a termine da tempo meritava una offensiva conflittuale assai più ampia e frontale. Questi provvedimenti hanno inciso profondamente nella carne di lavoratrici e lavoratori, diffondendo una precarizzazione e una insicurezza crescente che nel mondo degli appalti è diventata un verminaio, spesso insanguinato da centinaia di morti sul lavoro.

Sappiamo tutti che la partita dei referendum dipenderà molto dal raggiungimento o meno del quorum. La destra, la Confindustria e il “fuoco amico” nel campo largo giocano molto sulla diserzione alle urne per invalidare la consultazione. Il lavoro sporco in tal senso viene facilitato dalla scarsa comunicazione sui referendum e dal crescente astensionismo.

Vincere i referendum dell’8 e 9 giugno sarà una partita in salita ma giocarla è un dovere per tutti.

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