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La ripartenza dell’Ilva non va come previsto

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Chiesta la cassa integrazione per 3.420 operai e i commissari rivedono al ribasso la produzione. L'accordo di luglio prevedeva che scendessero tra 1.220 e 2.450, mentre la produzione avrebbe dovuto sfiorare i 5 milioni di tonnellate di acciaio. Ora avvisano che mancherà oltre un milione

La ripartenza dell’Ilva non sta andando come previsto appena lo scorso luglio. E così i commissari tornano a chiedere la cassa integrazione per un anno, in maniera più massiccia rispetto alle previsioni. Ai ministeri interessati e ai sindacati è arrivata l’istanza di autorizzazione per la proroga con numeri che certificano come gli scenari della scorsa estate fatichino a essere raggiunti. La triade alla guida dell’acciaieria di Taranto e degli altri stabilimenti del gruppo ha chiesto la cassa per 3.420 dipendenti sui 7.964 in organico per un anno a partire dall’1 marzo. L’accordo siglato a luglio prevedeva che gli operai in Cigs scendessero tra 1.220 e 2.450 nel 2025.

Un obiettivo irraggiungibile, ammettono tra le righe i commissari. E il perché è presto detto. Appena sei mesi fa, la previsione era di produrre tra i 4,5 e i 5 milioni di tonnellate di acciaio quest’anno. Adesso, invece, mettono nero su bianco che si producono 8mila tonnellate al giorno di acciaio, meno della metà di quelle che gli impianti possono potenzialmente sfornare, e prevedono “un graduale incremento sino a raggiungere circa 3,5 milioni di tonnellate a dicembre 2025, a seguito della ripartenza dell’altoforno 2, sebbene in sostituzione di uno dei due altiforni attualmente in marcia”. Se tutto andrà bene, a conti fatti, mancherà almeno un milione di tonnellate di prodotto rispetto al piano steso dai manager.

“I livelli produttivi attuali ed attesi, evidentemente, non sono ancora sufficienti a garantire l’equilibrio e la sostenibilità finanziaria degli oneri derivanti dalla gestione di impresa e pongono – in prospettiva – in strutturale squilibrio il rapporto costi/ricavi dell’intero ciclo produttivo” gestito dall’amministrazione straordinaria, si legge nel documento inviato ai ministeri del Lavoro e delle Imprese nonché alle sigle sindacali. Ecco quindi la richiesta di autorizzare la cassa integrazione per 3.420 dipendenti, di cui 2.955 solo a Taranto.

Intanto, la ricerca dell’acquirente continua. Per ora i big in gara per l’intero ‘pacchetto’ Ilva sono tre: gli indiani di Vulcan Steel, gli azeri di Baku Steel e il fondo Bedrock. La deadline per presentare le offerte aggiornate è stata spostata in avanti: c’è tempo fino al 14 febbraio per aggiustare il tiro sul fronte delle questioni industriale, occupazionale e ambientale. Ed è soprattutto il dossier lavoro quello che sembra rivelarsi più incerto con la previsione di una forte riduzione da parte degli acquirenti. Accanto ai tre player che gareggiano per l’intero gruppo, ci sono poi i sette offerenti per i singoli siti, compresa una cordata che comprende il gruppo Marcegaglia.

L’ipotesi “spezzatino” continua a essere rigettata dai sindacati, impegnati a chiedere – scottati dalla gestione Mittal – a gran voce che lo Stato mantenga una presenza forte all’interno della compagine societaria. Ma, come ribadito dal ministro per le Imprese e il Made in Italy, Adolfo Urso, quella via non è tenuta in considerazione dal governo: “Non è necessariamente la soluzione al problema”. La possibilità non è esclusa certo: “Sarà esaminata – ha sottolineato – ma non mi sembra che il bilancio di questi anni, in cui Invitalia aveva una parte importante e significativa in Acciaierie d’Italia, possa essere giudicata positiva”.

04/02/2025

da Il Fatto Quotidiano

 

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