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La risposta di Israele, contro chi e sino a dove? Rischio ‘effetto domino’

La risposta di Israele, contro chi e sino a dove? Rischio ‘effetto domino’

Sono almeno 900 gli israeliani uccisi da Hamas. La vendetta arriva a Gaza, isolata e al buio: bombe a tappeto anche su un campo profughi, 700 vittime. Tel Aviv avvia l’invasione via terra. Dagli Usa all’Europa quasi nessuno chiede di fermarsi, e gli Stati Uniti promettono l’invio di nuove armi a Israele, le poche rimaste negli arsenali dall’Ucraina.
L’accusa e in parte i fatti dicono che il sostegno ad Hamas viene dall’Iran. Se entra nel conflitto Hezbollah dal Libano, il pericoloso effetto-domino.

Non la solita guerra mediorientale

L’attacco, feroce e imprevisto, di Hamas e della Jihad islamica, ha chiuso un’epoca e ne ha aperto un’altra, demolendo, in due giorni, miti e luoghi comuni, sulla presunta ‘invincibilità’ di Israele, che erano consolidati da decenni. E ora? Il colpo al prestigio dello Stato ebraico è stato troppo forte, per non rispondere in modo massiccio. Ma il governo di Gerusalemme deve stare bene attento a non fare il passo più lungo del necessario. I bombardamenti aerei su Gaza, già iniziati, e il blocco di elettricità, acqua, rifornimenti vari, a colpire e affamare la popolazione con l’obiettivo di costringere Hamas a trattare uno scambio di prigionieri. Ma l’opzione forte è quella di un blitz via terra, con i blindati. In questo momento, sembra la più probabile. Anche se è troppo rischiosa, soprattutto per gli ostaggi e perché si potrebbe, di fatto, innescare una Stalingrado palestinese.

Combattere nella Striscia, casa per casa, cunicolo dopo cunicolo, è come darsi battaglia tra le fiamme dell’inferno. E qui dobbiamo aprire una parentesi, che allarga il grandangolo della crisi.

Il nemico vero oltre Gaza

Lo statunitense Wall Street Journal l’ha sparato in prima pagina e altre fonti giornalistico spionistiche confermano: dietro l’attacco di Hamas ci sarebbe la regia iraniana. In particolare, l’architetto strategico del devastante raid di sabato sarebbe il capo delle Brigate Al Quds, Ismail Qaani, che avrebbe coordinato diversi meeting preparatori in Libano, con l’organizzazione di Hezbollah e del suo leader, Hassan Nasrallah. Presenti anche il capo militare di Hamas, Saleh al-Arouri, e quello della Jihad Islamica, al-Nakhallah. A due di queste riunioni, rivela il WSJ, sarebbe stato invitato addirittura il Ministro degli Esteri di Teheran, Hossein Amir-Abdollahyan.

Rischio ‘affetto domino’

E è proprio in questo momento come che l’IDF, l’esercito di Israele, deve stare bene attento a non essere risucchiato su più fronti. Se a sud, infatti, c’è Gaza degli ostaggi e della vendetta immediata, a nord, sul Golan, Hezbollah attende solo ordini per scatenarsi, mentre a est, la Jihad è pronta a far sollevare tutta la Cisgiordania. Questo è solo il quadro del possibile effetto-domino localizzato alla Terrasanta. Tuttavia, la chiave di lettura geopolitica di quanto sta succedendo è molto più complicata di ciò che sembra. La partita, che si sta giocando a Gaza e nel sud d’Israele, riguarda, di rimbalzo, un’altra vicina area di crisi: il Golfo Persico.

Dalla Terrasanta al Golfo Persico

Secondo diversi analisti, gli ayatollah avrebbero reagito, dando via libera ad Hamas, per spezzare l’intesa diplomatica che l’Arabia Saudita stava raggiungendo con Gerusalemme. Un accordo e una firma che avrebbero significato la definitiva consacrazione dei Patti di Abramo, voluti e garantiti dagli Stati Uniti. Mohammed bin Salman, Netanyahu e Biden, tutti da un lato, sarebbero stati avversari insormontabili, per un Iran che accarezza ancora sogni di egemonia regionale. Non a caso, l’autorevole think-tank Al Monitor, ha dedicato un report al discorso della Guida suprema iraniana, Alì Khamenei, che lo scorso 3 ottobre metteva in guardia i Paesi islamici dalla normalizzazione con Israele. In quell’occasione, quasi profeticamente, Khamenei, riaffermando il suo sostegno ai palestinesi, ha detto: «La loro lotta giungerà a buon fine e Israele verrà sradicato dai gruppi di resistenza di tutta la regione». In parte i fatti gli stanno dando ragione. E questo lo sanno pure a Washington, dove già infuriano le polemiche contro Biden.

Altri problemi per la Casa Bianca

I Repubblicani sono sul piede di guerra, perché accusano la Casa Bianca di avere chiuso un ‘patto scellerato’ con gli ayatollah, che ha consentito loro, in cambio di ostaggi americani, di rientrare in possesso di ben 6 miliardi di dollari che gli erano stati  congelati. Più in generale, l’Amministrazione Biden viene ritenuta troppo ‘morbida’ rispetto a tutto quello che finora imputato all’Iran, come il sequestro di petroliere. E ora il punto interrogativo più grosso riguarda Teheran. La chiave, di cui ci siamo già occupati molte volte, è lo Stretto di Hormuz, da dove passa il 35% del petrolio mondiale. Basterebbe un blocco con la semplice dispersione di mine, per bloccare la navigazione e mandare in tilt il commercio di greggio. Certo, gli Stati Uniti hanno spostato le loro navi. Ma è più una presenza simbolo che una mossa con un vero senso strategico.

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Preveggenza americana

Solo otto giorni fa, il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, parlando all’Atlantic Festival, ha snocciolato un lungo elenco di sviluppi positivi in ​​Medio Oriente, sviluppi che hanno consentito all’amministrazione Biden di concentrarsi su altre regioni e su altri problemi. Nello Yemen vigeva una tregua. Gli attacchi iraniani contro le forze statunitensi erano cessati. La presenza americana in Iraq era stabile. La buona notizia è culminata con questa affermazione: «La regione del Medio Oriente è più tranquilla oggi di quanto lo sia stata negli ultimi due decenni».