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La scalata di Kast, erede di Pinochet, alla presidenza cilena

La scalata di Kast, erede di Pinochet, alla presidenza cilena

Politica estera

14/12/2025

da Il Manifesto

Claudia Fanti

Cile Rigurgiti estremisti e forze conservatrici, al ballottaggio di oggi la comunista Jara non ha chance. Il flop di Boric presenta il conto

In Cile ne sono tutti convinti: al primo turno del 16 novembre scorso è stato di fatto già deciso tutto e dunque il ballottaggio che si terrà oggi rappresenta poco più di una formalità. È infatti di circa 20 punti, secondo gli ultimi sondaggi, il vantaggio di José Antonio Kast, il pinochetista (e figlio di un nazista) che non fa nulla per nasconderlo, su Jeannette Jara, la comunista che fa di tutto per non apparirlo: un divario così grande che la destra già canta vittoria senza neppure lasciare un po’ di spazio alla scaramanzia.

LEI, LA CANDIDATA di Unidad por Chile, non ha lesinato sforzi per tentare di convincere gli indecisi e soprattutto i 2,5 milioni e passa di elettori, pari a quasi il 20% dei voti, che hanno votato al primo turno per il populista Franco Parisi, deciso a non schierarsi con nessuno dei due candidati. Un tentativo portato avanti facendo soprattutto leva sul sentimento anti-Kast di svariati settori del paese, con attacchi sferrati in particolare sul terreno dei diritti umani e degli annunciati tagli di 6 miliardi di dollari in 18 mesi. E non è sfuggito, durante l’acceso dibattito presidenziale del 3 dicembre, il fatto che, alla domanda di Jara riguardo a quali programmi sarebbero stati colpiti da questi tagli, Kast abbia finito per non rispondere, trovando più facile minacciare di espulsione i 336mila migranti irregolari residenti in Cile – a meno che non siano loro a lasciare il paese «volontariamente» prima del suo insediamento alla presidenza – ed evocando una possibile riforma costituzionale per togliere la nazionalità cilena ai loro figli nati nel paese.

La strategia di Jara, tutta centrata sulla necessità di «fermare l’estrema destra», di «vincere per non retrocedere», rassicurando al contempo la classe dominante, è tuttavia nata spuntata. Né è stato ben visto il suo incontro con l’ambasciatore statunitense in Cile Brandon Judd, il quale si era fatto già notare per aver spudoratamente dichiarato, a metà novembre, appena undici giorni dopo aver assunto il suo incarico, che era «più facile lavorare» con un governo ideologicamente allineato all’amministrazione Trump – tanto più un governo che avrebbe molto da offrire agli Stati Uniti, a cominciare dal litio di cui il paese è come noto assai ricco -, esprimendo inoltre «delusione» per le critiche di Boric alla politica ambientale del tycoon.

LA SUA UNICA CHANCE, al contrario, sarebbe stata quella di presentare una proposta di trasformazione reale in grado di riaccendere la speranza sorta con l’estallido social di sei anni fa e soffocata dai successivi quattro anni di governo Boric: una deludentissima riedizione del patto di governabilità – in funzione dello status quo – stretto dai due lati estremi della stessa classe dominante e garantito per 16 anni dall’alternanza al potere della coppia Bachelet-Piñera. Prima che la rivolta del 2019 puntasse a spazzare via il modello economico e politico ereditato dalla dittatura di Pinochet.

Era stato proprio grazie alle centinaia di migliaia di cittadini che si erano riversati sulle strade del paese malgrado una brutale repressione che Gabriel Boric aveva potuto conquistare la presidenza, e per di più con un forte grado di legittimità. Con un compito unico e preciso: trasformare in realtà le rivendicazioni popolari, liquidando una volta per tutte il lascito di Pinochet.

Era un’occasione unica, e Boric l’ha sprecata miseramente, incapace di offrire nient’altro che una quasi completa continuità economica con il modello di sempre; la stessa repressione, solo più selettiva, della protesta sociale; una criminalizzazione se possibile ancora più accentuata del popolo mapuche; l’abbandono di qualsiasi promessa di trasformazione strutturale.

IL RISULTATO del fallimento si traduce in una cifra che dice tutto: al primo turno, l’estrema destra pinochetista, con le sue tre candidature – Kast, Johannes Kaiser ed Evelyn Mattei – ha raccolto il 50% dei voti, non solo assicurandosi la vittoria alle presidenziali, ma, come ha evidenziato uno dei candidati di centro-sinistra, Marco Enríquez-Ominami, riconquistando «l’immaginario politico del Cile». E quel che è peggio, ha aggiunto, è che non lo ha fatto per meriti propri, ma per il «collasso totale del campo riformista»; non attraverso l’offerta di soluzioni nuove, ma utilizzando semplicemente l’arma della «strumentalizzazione della paura», nel segno dell’ordine, del controllo e del pugno di ferro.

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