21/11/2025
da Avvenire
Barbara Uglietti, Bollate (Milano)
Reportage dalla Casa di reclusione di Milano: i minuti nella “cella vuota” dove i più fragili vengono sorvegliati, poi il ritorno nei reparti dove ogni giorno si rinasce. Per capire come il “sistema” può funzionare
Il nome tecnico è “Cella Sav” – “Sorveglianza a vista” – ma la chiamano “Cella dei suicidi”. Ci sono arrivata perché un amico che lavora come volontario al carcere di Bollate mi ha detto dai, viene a vederla, l’abbiamo decorata. Ci sono andata. È in fondo a un corridoio, sulla sinistra, passate due rampe di scale, una decina di cancelli e una cinquantina di sguardi lenti o curiosi o infastiditi o attenti di detenuti e operatori e agenti che vedono, pesano e valutano in mezzo secondo ogni visitatore.
Ci sono entrata con la spavalderia di chi è abituato a frequentare il limite: un passo deciso, un altro, un altro ancora ed ero in fondo, davanti alla finestra. Non mi sono guardata intorno, ho guardato fuori: un cortile spoglio, cassonetti: l’area rifiuti. Il dolore ha fatto il resto. È una specie di virus, il dolore. Che si annida in posti come questo e sa aspettare l’incubatore: lo riconosce e si intrufola. Mi ha tolto il respiro. Mi sono seduta sul materasso di gommapiuma sul letto di ferro sul pavimento di piastrelle. Chi arriva qui, chi si siede o si sdraia o si rannicchia qui, è già profondamente infettato dal dolore, profondamente malato. Così tanto da aver deciso di togliersi la vita. Portano in questa stanza i reclusi che devono essere osservati 24 ore su 24 perché a grave rischio di suicidio. In genere ci stanno tre giorni, salvo altra prescrizione dello psichiatra. Ci sono rimasta dieci minuti. Ho chiesto all’agente di accostare la porta con le sbarre e di sistemarsi lì fuori, dove su una sedia si alternano giorno e notte i guardiani di queste vite infinitamente fragili. Contrariamente ad ogni possibile logica, ho avvertito calma, protezione. Ed è a quel punto che mi sono guardata intorno.
Nella Cella Sav non c’è niente, proprio niente, oltre al letto e alla lampadina. Il letto è inchiodato al pavimento (potrebbe essere usato per barricarsi); la lampadina è in una teca fissata al soffitto (potrebbe essere usata per tagliare o tagliarsi). In una stanzetta adiacente, su cui si apre uno spioncino di sicurezza, ci sono un water di ferro, un lavandino di ferro, un rubinetto di ferro. Poi ci sono i muri. Erano tutti macchiati, mi è stato spiegato: testimoni della disperazione feroce e annientante di chi arriva qui dentro. Adesso sono pieni di trompe-l’oeil: due finestre affacciate su spazi aperti; un tavolino con una caffettiera; uno scaffale con i libri; il mare, un bosco. Li hanno realizzati alcuni detenuti con i volontari dell’Associazione Le Belle Arti Aps – quella per cui lavora l’amico che mi ha proposto questa visita – dopo una discussione attenta su stili, soggetti, colori: niente che possa suscitare ricordi, buoni o cattivi, emozioni lontane o, peggio, desideri; niente tinte forti, meglio i verdi e gli azzurri. C’è un’unica firma: “M”. Come acchiappando un filo di Arianna che mi porti fuori da lì, chiedo chi sia questo “M”. «La accompagno», mi dice l’agente. Il percorso a ritroso verso la vita, a Bollate, è fatto di colori. In questo caso, vivacissimi. In sezione non c’è una sola parete bianca: i dipinti riempiono lo spazio, raccontano storie, quelle dei reclusi che li hanno fatti. Le celle sono aperte, i corridoi trafficati: mi trovo a impicciare tra strette di mano, pacche sulle spalle, nomi e scambi di informazioni, fogli con autorizzazioni da consegnare, richieste da portare, lavori da terminare, progetti da avviare. Incredibilmente, in questo tempo parallelo del carcere, tutti vanno di fretta; ognuno ha qualcosa da fare. Un movimento che non si genera da solo.
Incontro Laura Cambri e Laura Giliberto della Cooperativa Articolo 3, attiva da anni nella struttura. Camminano accanto a me tra un laboratorio e l’altro, un’aula e l’altra, un ufficio e un altro. Mi parlano di «osmosi» tra dentro e fuori, tra chi educa e chi impara, tra chi protegge e chi prova a ripartire. «Un buon sistema influenza tutti: i detenuti, gli agenti, i volontari. E qui, a insegnare, entra solo chi ha un’alta professionalità da mettere in gioco». Il tasso di recidiva nazionale è del 70% circa; a Bollate scende almeno della metà. «Poi il peggio a volte succede. Non si può evitare tutto. Ma le cose funzionano». Arrivo alla scuola. È in Reparto, il terzo. L’aula è chiassosa: ora di matematica. L’insegnante, Annaletizia La Fortuna, mi dice che “M”. non è lì, ma che ci sono cose da vedere. «Venga». Mi porta in una cucina super-attrezzata. La scuola è un alberghiero. Le classi sono cinque, gli insegnanti dieci, gli iscritti una settantina, di tutte le età. Arrivano – «in autonomia» – ogni mattina dalle altre sezioni. «È proprio questo che dà senso al mio lavoro – spiega la professoressa –. Non tutti sono vocati allo studio, molti vengono per “perdere tempo”, ma resta il “tempo perso” meglio investito. Alla fine, crescono. E la percentuale di successo è alta: fuori, lavorano».
L’ultimo laboratorio in fondo è quello di pittura. Odore di vernice, dipinti e statue, presse per la stampa calcografica. “M.” è lì. Me lo presentano. Ha 35 anni, gliene hanno dati 18, ne ha fatti 10, spera di uscire tra 2. Ci mettiamo seduti in un angolo, per parlare. «Ho visto il tuo dipinto nella cella Sav», gli dico. «Dipingo da quando ho otto anni», taglia corto. Si prende qualche secondo per studiare la situazione. Poi alza le spalle e sistema dentro un «vabbè» tutta la sua vita. La racconta. È domenicano. L’italiano è perfetto, la capacità di ragionamento anche. A Bollate ha preso tutti i diplomi che poteva, ha frequentato tanti corsi. «Passerei le giornate nel laboratorio di pittura. Quando avevo 13 anni mettevo i miei quadri sulla guagua (l’autobus) e li andavo a vendere ai turisti». Le cose hanno cominciato a girare male, e poi malissimo, arrivato in Italia. Decidiamo di non discuterne. «In questi dieci anni mi sono imposto una routine quotidiana molto severa. Dalle sei di mattina alle sei di sera. Mi sono sempre sentito più vivo e più libero di tanti che, fuori da qui, non hanno obiettivi. Ma sta succedendo qualcosa. La testa c’è, il corpo si sta ribellando. Ha bisogno di respirare. Fatico a trovare motivazione, sto sempre peggio». Mi ero dimenticata del dolore che c’è qui dentro. Mi ero dimenticata di quella cella al piano di sopra. Mi torna in mente e probabilmente negli occhi, perché “M.” mi dice che è tutto a posto, e che si sistemerà tutto, e io gli dico che è tutto a posto, e che si sistemerà tutto. E che quella cella in cui ha dipinto l’orizzonte di un bellissimo Oceano è vuota. Da mesi.

