22/11/2025
da Il Manifesto
Non si può rifiutare Zelensky apre alla necessità di fare concessioni dolorose per evitare di perdere il sostegno degli Usa. Esplode la confusione nell’Ue
«Questo è uno dei momenti più difficili della nostra storia, attualmente la pressione sull’Ucraina è tra le più forti». Inizia così un discorso storico, con il quale Volodymyr Zelensky, da solo davanti allo sfondo digitale della Verkhovna Rada, annuncia alla nazione che dopo quasi quattro anni ci avviamo alla conclusione della guerra. «L’Ucraina potrebbe ora trovarsi di fronte a una scelta molto difficile: perdere la propria dignità o rischiare di perdere un partner fondamentale; o 28 punti difficili o un inverno estremamente difficile, il più difficile mai visto, e ulteriori rischi. Una vita senza libertà, senza dignità, senza giustizia. E ci si aspetta che ci fidiamo di qualcuno che ci ha già attaccato due volte. Non faremo dichiarazioni altisonanti, lavoreremo con calma con l’America e tutti i nostri partner. Presenterò argomenti, persuaderò, offrirò alternative, ma sicuramente non daremo al nemico alcun motivo per dire che l’Ucraina non vuole la pace».

DONALD TRUMP nel frattempo aveva lanciato un vero e proprio ultimatum: o la firma entro giovedì prossimo o «drastici tagli alle forniture di armamenti». In serata, rispondendo ai microfoni di Fox news sui territori che Kiev dovrà cedere ha aggiunto: «Probabilmente, se il conflitto dovesse continuare, li perderà comunque in un breve lasso di tempo». Sulle sanzioni alla Russia il tycoon ha insistito – «Non farò nulla per revocarle» – ma nei fatti al gigante del petrolio russo Lukoil è stata concessa una proroga fino al 13 dicembre. Il suo vice, JD Vance, si era affrettato a chiamare il presidente ucraino per ribadire il concetto, qualora non fosse chiaro: cedere o incorrere nelle conseguenze dell’ira funesta della Casa bianca. Una conversazione durata circa un’ora, alla quale ha partecipato anche il segretario dell’Esercito Usa, Daniel Driscoll.
I generali inviati a Kiev da Trump non appena Zelensky ha terminato il suo tour europeo avevano fatto lo stesso e l’inviato speciale Steve Witkoff aveva continuato a tenere un canale aperto con Mosca, lasciando trapelare agli ucraini quel poco che bastava. Il risultato di questo fuoco incrociato è che ieri Zelensky è stato costretto a rompere gli indugi. E lo ha fatto nel modo più eclatante, palesando le difficoltà e in certo senso collettivizzando il dilemma, che davvero stavolta è amletico: accettare di fare concessioni, anche durissime, e continuare a esistere oppure combattere e prosciugarsi fino a sparire. Deve essere una responsabilità di tutti, dice Zelensky a chi non vede l’ora di accoltellarlo alla schiena, a chi vuole semplicemente archiviarlo come successo a tanti leader subito dopo la fine delle ostilità (famoso l’esempio di Winston Churchill, che però la guerra la vinse) e a chi trama per cercare tra gli ex qualcuno di fedele che obbedisca agli ordini dall’estero. Ma non solo, il messaggio del capo di stato è rivolto davvero alla popolazione e dice effettivamente «facciamocene tutti carico». Perché ora e perché in modo così eclatante? Possiamo azzardare delle ipotesi basate sugli ultimi sviluppi.
LO SCANDALO CORRUZIONE, esploso con una tempistica quasi perfetta per mettere in difficoltà il presidente ha già minato la fiducia degli ucraini nei vertici della repubblica. Dalle riunioni che dovevano decidere il futuro del cerchio magico del leader e, in particolare, il destino del capo di gabinetto Andriy Yermak, non è uscito nulla. «La questione del personale nell’Ufficio del presidente è responsabilità del presidente», avrebbe affermato Zelensky, rispondendo alla domanda di una parlamentare. L’incontro si è svolto a porte chiuse, agli onorevoli è stato chiesto di lasciare i cellulari fuori dalla sala ed è stato imposto il massimo riserbo. Sembra che il presidente più che l’aula abbia voluto blindare i suoi prima di un passaggio epocale che per lui sarà il più difficile di tutti. Intanto diversi ministri e alti funzionari si sono fatti portavoce della linea dell’intransigenza.
Uno su tutti l’ex ministro della Difesa e attuale capo del Consiglio di sicurezza nazionale, Rustem Umerov. «Non possono esserci decisioni al di fuori del quadro della nostra sovranità, della sicurezza del nostro popolo o delle nostre linee rosse né ora né mai». Lo stesso fiero difensore dell’Ucraina che non appena ha avuto sentore che l’inchiesta stesse per raggiungerlo si è dato alla macchia, prolungando il suo “viaggio diplomatico” all’estero fino ad aver ricevuto la garanzia di non essere arrestato. Zelensky poteva nicchiare, aprire agli Usa e nel frattempo provare a stravolgere il piano in camera caritatis, con il rischio di rimandare l’inevitabile tracollo personale. Ha scelto invece di giocarsela fino in fondo, consapevole del fatto che non è solo il futuro dell’Ucraina ma il suo personale a essere a rischio. Fisicamente e non solo metaforicamente.
CHI HA PALESATO la sua totale inconsapevolezza è l’Europa. Basti considerare le dichiarazioni del presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa, in conferenza stampa con la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, in vista del vertice G20 a Johannesburg: «All’Unione europea non è stato comunicato alcun piano in maniera ufficiale e mi sembra assurdo commentare a questo punto. Posso solo dire e ripetere che l’Unione europea resta pienamente impegnata a garantire un sostegno incrollabile all’Ucraina, sulla base dei principi della Carta delle Nazioni Unite».
Ottusità mascherata da costanza. Infatti Gran bretagna, Francia e Germania si sono affrettate a sentirsi per organizzare una contro-proposta. Sembrava fosse questa la via sulla quale si sarebbe arenato anche questo spiraglio per la fine della guerra. Berlino, Londra, Bruxelles, Parigi, tutti i leader che fino all’altro ieri si affannavano a ribadire «il sostegno a Kiev fino alla vittoria», o almeno «fino a che l’Ucraina continuerà nella sua giusta lotta di difesa» hanno provato anche ieri a dichiarare il piano illegittimo nella formula riassumibile con «siamo d’accordo con la pace ma non a costo di concessioni così alte». Invece poi Zelensky, l’Ucraina, ha ceduto a una realtà evidente a tutti, meno che ai leader del Vecchio continente: l’Europa da sola non può fare nulla. E quindi ora che è l’Ucraina a dire basta, riservandosi il diritto (e la speranza) di limare la débâcle il più possibile, cosa resta dell’unico collante che ha tenuto insieme l’Unione europea per questi 4 anni, ovvero la minaccia russa? Restano i soldi da spendere, per il riarmo che comunque gli Usa imporranno a spese nostre, per la ricostruzione dell’Ucraina che pure sarà a nostro carico, per le garanzie di sicurezza sulle quali non abbiamo voce in capitolo.

