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L’abuso in diretta su TikTok: «E ora denunciateci all’Aja»

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GAZA. L'autonarrazione social dei soldati israeliani: furti nelle case, bandiere e moschee profanate, derisione dei palestinesi. E crimini di guerra. Per anni l’esercito israeliano ha cercato di addolcire la propria immagine con meme, riferimenti pop e soldate-influencer. Ora vuole mostrarsi implacabile e non ferma video e foto di violenze

È dall’inizio dell’«assedio totale» della Striscia di Gaza che i soldati israeliani pubblicano sui social atti di violenza e sopraffazione – se non veri e propri crimini di guerra – commessi da loro stessi. E lo fanno con una disinvoltura piuttosto inquietante. Il campionario è tragicamente vasto e da mesi viene catalogato su X dal giornalista palestinese Younis Tirawi. Foto e video mostrano devastazioni su larga scala, bombardamenti di abitazioni civili, distruzioni di moschee, arresti di massa, umiliazioni dei prigionieri e saccheggi di ogni tipo.

LA MOLE DEI POST dei soldati, distribuiti in larga parte su TikTok e Instagram, è tale per cui è possibile isolare alcuni filoni all’interno di questo macabro genere. Uno dei più gettonati è l’esibizione degli oggetti rubati. In molte immagini i soldati ridono mentre indossano sopra le divise reggiseni di donne gazawi, evidentemente recuperati all’interno delle abitazioni abbandonate.

 

In diversi video, invece, si vedono soldati pedalare su biciclette per bambini; saltare su piccoli cavalli a dondolo dentro appartamenti distrutti e disabitati; «regalare» ai commilitoni delle pianole giocattolo; suonare strumenti musicali (non loro, ovviamente) in mezzo alle macerie; e sventolare mazzette di soldi trovati nelle case, come se fossero dei trapper.

Altro filone particolarmente prolifico è la profanazione della bandiera palestinese: ci sono foto in cui viene bruciata in vari modi e clip in cui viene usata come una sorta di tappeto per pulirsi gli scarponi.

Anche la devastazione delle proprietà palestinesi va per la maggiore: i soldati vandalizzano deliberatamente negozi, mobili, utensili da cucina o l’arredo. In un caso, visibile in una storia di Instagram, un militare del 890esimo battaglione aviotrasportato lancia delle tazzine per terra all’esterno di un’abitazione. Poi, rivolgendosi al cellulare che lo riprende, dice sprezzantemente: «E adesso denunciatemi all’Aja, bastardi».

Spesso i soldati israeliani accompagnano le foto e i video con testi violenti e apertamente genocidari. In un post su Facebook, per fare un esempio, un sergente maggiore scrive che «l’obiettivo è semplice: trasformare Gaza in una spianata con delle bellissime spiagge. Mi interessa qualcosa dei suoi abitanti? Lo dico subito: NO».

 

E A PROPOSITO di “spianare”, in vari post – specialmente su Instagram – i soldati reggono provocatoriamente degli striscioni in cui pubblicizzano la prossima apertura di attività commerciali israeliane a Gaza, o chiedono il ripristino delle colonie all’interno della Striscia.

C’è poi un altro filone particolarmente disturbante: le scenette «goliardiche», ossia di dileggio. In un video dei soldati giocano a pallone dentro un palazzo distrutto; in un altro due militari si mettono in posa e simulano il taglio dei capelli all’interno del negozio di un barbiere. E ancora: una foto immortala un soldato mentre rivolge il dito medio verso un edificio che ospitava una scuola gestita dall’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi.

A destare impressione non sono soltanto gli atti in sé, ma il fatto che si svolgano in un clima allegro e giocoso. Da questi contenuti emerge il godimento nell’annientare e umiliare le persone palestinesi, che non sono nemmeno considerate tali. Gli stessi soldati non ritengono problematiche condotte di questo genere né dal punto di vista etico, né tanto meno da quello legale.

Lo scorso febbraio è diventato virale un video in cui il riservista LeRoi Taljaard, che ha la doppia cittadinanza sudafricana, celebra in maniera scherzosa il bombardamento di un edificio a Khan Younis. Intervistato dall’emittente statunitense ABC News, Taljaard si è giustificato dicendo che «io e miei amici eravamo in un momento molto difficile e lo humour nero è stato il nostro modo di affrontarlo». Lo stesso ha aggiunto di non temere ripercussioni di sorta: l’esercito israeliano non ha mai preso provvedimenti di sorta nei suoi confronti; anzi, non l’ha mai nemmeno contattato.

Eppure, queste condotte andrebbero teoricamente contro il codice di condotta delle forze armate di Israele, che regola anche il comportamento da adottare sui social network. Tant’è che il portavoce dell’esercito Daniel Hagari – parlando anche lui con ABC News – ha detto che certi comportamenti «saranno sanzionati severamente» perché «questo è un esercito del popolo» che «segue i principi fondamentali e il diritto internazionale». Nella pratica, tuttavia, la disinvoltura con cui i soldati pubblicano queste azioni riprovevoli testimonia il loro carattere sistemico, e dunque ampiamente tollerato.

NON È SEMPRE stato così: nel 2010 la riservista Eden Abergil aveva postato su Facebook un selfie che la ritraeva, in posa dileggiante, davanti a tre prigionieri palestinesi bendati e ammanettati. La foto venne scoperta da blogger israeliani di sinistra e innescò un grande dibattito sia dentro che fuori Israele. Lo stesso esercito parlò di «comportamento vergognoso» e promise di prendere provvedimenti per evitare il ripetersi di scandali del genere.

Ora quella foto non farebbe nemmeno scalpore. I post dei soldati a Gaza sono nettamente peggiori, ma al tempo stesso si inseriscono in una più ampia strategia mediatica. Come ha dimostrato una recente inchiesta del quotidiano Haaretz, nei mesi scorsi l’unità dell’esercito dedita alle operazioni di guerra psicologica ha gestito un canale Telegram chiamato «Senza censura – 72 vergini». In quello spazio veniva pubblicato materiale esplicito e particolarmente splatter, pieno di foto di cadaveri di civili, istigazioni all’odio e video di soldati che immergevano i proiettili nel grasso di maiale.

L’operazione non era formalmente autorizzata, ma il solo fatto che sia stata pensata e infine realizzata restituisce appieno la radicalizzazione della propaganda bellica israeliana, che a sua volta rispecchia la generale radicalizzazione della società israeliana.

SE PER ANNI l’esercito ha cercato di addolcire la sua immagine – nonché la violenza dell’occupazione dei territori palestinesi con meme, riferimenti alla cultura pop e soldate-influencer – dopo il 7 ottobre ha deciso di mostrarsi spietato e implacabile, arrivando a rivendicare una brutalità praticamente illimitata contro il nemico.

Ma del resto gli stessi vertici del governo Netanyahu parlano dei palestinesi come «animali umani». Non sorprende, quindi, che i soldati si comportino di conseguenza.

24/05/2024

da il Manifesto

Leonardo Bianchi

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