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L’acciaieria di Taranto è allo sbando, e il governo sta fermo

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Sciopero di 24 ore dei metalmeccanici indetto dai sindacati Fim, Fiom e Uilm «in protesta verso il management di vertice»

«Era un disastro annunciato l’arrivo a Taranto dell’amministratore delegato Lucia Morselli e così è stato. Lo stabilimento è completamente paralizzato. Non ci sono i termini minimi per andare avanti. Non si può provare a ragionare con una azienda che non risponde più a questo stabilimento». È nelle parole pronunciate da un operaio davanti ai cancelli dell’ex Ilva la sintesi della protesta che è andata in scena ieri durante le 24 ore di sciopero proclamate dai sindacati confederali Fim, Fiom e Uilm.

HANNO INCROCIATO le braccia i lavoratori metalmeccanici, degli edili, degli elettrici, dei chimici, dei trasporti, dei servizi e della somministrazione di lavoro, con una alta adesione anche tra i cassintegrati. A qualche chilometro di distanza, nello stesso perimetro all’interno della fabbrica si svolgeva lo Steel Commitment Primary 2023, un evento in cui circa 500 persone tra fornitori, clienti, e addetti ai lavori si facevano spiegare dal top management di Acciaierie d’Italia «le innovazioni di prodotto, di sistema e di processo introdotte nel corso degli ultimi anni», come hanno riferito da AdI. Addirittura nel corso dell’evento Alessandro Labile, direttore ambiente, salute e sicurezza di AdI, ha sottolineato che – concluso il Piano Ambientale 2018-2023 – si può affermare che «l’acciaio di Taranto rispetta l’ambiente. A tal fine sono stati investiti negli ultimi anni circa 2 miliardi di euro».

«All’interno della fabbrica non c’è più niente, non ci sono i pezzi di ricambio, vengono presi i pezzi da alcune macchine ferme e montati su altre che stanno in produzione, c’è poca sicurezza», racconta un altro lavoratore: «ormai siamo diventati lavoratori stagionali, quando c’è il lavoro ti chiamano, altrimenti ti dicono di stare in cassa integrazione». È l’incertezza, l’assenza di futuro, la parola d’ordine che risuona tra le centinaia di lavoratori e delegati sindacali che hanno presidiato fin dalle prime luci dell’alba la portineria della direzione e la strada che corre parallela alla statale verso Bari, con l’obiettivo di intercettare gli imprenditori in giacca e cravatta della siderurgia che si apprestavano, tra una tartina e un calice di prosecco, ad assistere al roadshow. La protesta, hanno detto i sindacati: «non è contro i fornitori o chi lavora con AdI, ma verso il management di vertice di Acciaierie d’Italia». Ed è quello che hanno provato a spiegare le stesse sigle anche mercoledì nel corso dell’incontro che si è tenuto a Palazzo Chigi con il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Alfredo Mantovano, e con il ministro delegato, tra le altre cose, alle politiche per il Mezzogiorno, Raffaele Fitto.

«Da parte loro non ci sono state risposte. Anzi, ci sono stati passi indietro, mentre mesi fa ci avevano rassicurato sulla possibilità che lo Stato avrebbe assunto la maggioranza del capitale, ora quell’ipotesi è tramontata», ha spiegato a margine il segretario nazionale della Uilm, Rocco Palombella. «Il governo attuale, come quelli che l’hanno proceduto, sta giocando a perdere ancora tempo e invece ci si deve rendere conto che la storia con questo gruppo industriale, Arcelor Mittal, è finita», ha aggiunto il sindacalista.

LA SITUAZIONE è così grave che il 25 settembre il presidente del gruppo, Franco Bernabè, in un’intervista alla Gazzetta del Mezzogiorno, ha dichiarato che «le acciaierie non possono acquistare le materie prime e vi è l’urgenza è mettere subito a disposizione risorse». Mentre si rincorrono da giorni le voci sulle dimissioni del manager. E il deputato del partito democratico, Ubaldo Pagano, proprio ieri, in una interrogazione al ministro Fitto ha chiesto lumi sul rispetto dell’accordo siglato nel 2018 tra Arcelor Mittal e i sindacati per garantire la clausola di salvaguardia occupazionale che prevede il reintegro dei lavoratori di ex Ilva in amministrazione straordinaria all’interno del perimetro industriale. Non solo. Pagano ha chiesto conto anche dei progetti di decarbonizzazione degli impianti produttivi, «di cui da mesi non si hanno più notizie, se non l’eliminazione della misura Pnrr con dotazione di un miliardo di euro destinata a tali scopi».

L’IMPRESSIONE, dunque, è che dalle parti di Palazzo Chigi si giochi a prendere tempo, come dimostrano in maniera plastica i due decreti approvati finora. Il primo, nel gennaio scorso, ha introdotto lo scudo penale per i dirigenti; il secondo, varato a luglio, ha stabilito che l’azienda possa essere ceduta da Ilva in amministrazione straordinaria anche con gli impianti sotto sequestro (quelli dell’area a caldo lo sono dal 26 luglio del 2012) e continuare a produrre anche se la Cassazione dovesse confermare la confisca.

Sullo sfondo, inoltre, vi è la spada di Damocle di un procedimento azionato davanti alla Corte di Giustizia europea, che dovrà esprimersi il mese prossimo sul ricorso presentato dall’associazione Genitori Tarantini in relazione alla legittimità di alcune norme della legislazione speciale cosiddetta «salva Ilva». Cioè sul merito di una decina di decreti legge che, dal 2012 ad oggi, sono serviti unicamente a perdere tempo e a concedere vantaggi agli inquinatori.

29/09/2023

da Il Manifesto

Gaetano De Monte