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L’Adriatico sommerso dai rifiuti: la risposta è l’economia circolare

L’Adriatico sommerso dai rifiuti: la risposta è l’economia circolare

Ambiente

14/08/2025

da Valori

Redazione

L’Adriatico sommerso dalla plastica: il progetto Bluecircle punta su economia circolare e innovazione per salvare spiagge e biodiversità

Non solo microplastiche, ma anche mozziconi di sigaretta e bastoncini cotonati, pezzi di polistirolo, salviette, vetro e ceramica, sdraio e frammenti di ombrelloni. Le spiagge dell’Adriatico sono pesantemente “frequentate” dai rifiuti e, a differenza dei turisti, molti di essi le occupano tutto l’anno, registrando numeri di presenze ben superiori a quanto tollerato dall’Unione Europea.

I numeri dei rifiuti spiaggiati sulle coste adriatiche

Non esistono dati specifici per le coste adriatiche, ma l’entità del fenomeno può essere in parte dedotta dalle medie nazionali italiane. Se la quantità massima di rifiuti (“beach litter”) che una spiaggia europea può ospitare per essere considerata “in buona salute” è di 20 elementi antropici ogni 100 metri, in Italia si parla di almeno dieci volte tanto.

Secondo l’ARPA, nel 2023, tra Tirreno e Adriatico, si sono registrate oltre 250 unità. Lo scorso anno, i volontari di Legambiente ne hanno rilevate addirittura 900. Oltre a confermare il quasi scontato trionfo della plastica, questo lavoro meticoloso ha servito anche a sottolineare la presenza permanente degli oggetti usa e getta: ufficialmente scomparsi dal mercato da anni, ma ancora ben presenti nelle nostre acque.

Rifiuti a confronto: come cambiano lungo le coste dell’Adriatico

A causa del suo profilo concavo e della sua scarsa profondità, l’Adriatico è condannato all’accumulo di rifiuti sulle spiagge, mentre i fiumi – il Po in primis – li trasportano anche dall’entroterra verso nord, aggravando ulteriormente il problema, e non solo nei pressi delle foci. Non esistono latitudini o confini, che siano coste dell’Unione europea o meno: lo scambio d’acqua è continuo e ogni elemento galleggiante si sposta da una sponda all’altra come una nave da crociera. Quando finisce nello stomaco di pesci, uccelli o altri organismi marini, attraverso la catena alimentare può arrivare anche sulle nostre tavole, con conseguenze dannose per la salute.

Massimiliano Falleri, responsabile della divisione subacquea di Marevivo, monitora e combatte questo fenomeno da anni, con campagne di sensibilizzazione e attività di raccolta rifiuti sia in mare che sulle spiagge. È sempre più convinto che serva un impegno collettivo. «Tutti dovrebbero contribuire sia riducendo l’uso della plastica che smaltendo i rifiuti in modo corretto, altrimenti questo ciclo non avrà mai fine», spiega. «Anche se negli ultimi cinque anni la consapevolezza di governi, organizzazioni e cittadini è cresciuta, la quantità di rifiuti resta alta, soprattutto a causa di pratiche di smaltimento scorrette e dell’uso ostinato della plastica monouso».

La pandemia di Covid-19 aveva inevitabilmente fatto aumentare la presenza di rifiuti, ma il calo atteso nel periodo post-Covid non si è mai verificato. Secondo Marevivo, il “beach litter” nell’Adriatico resta una «sfida importante: la sua evoluzione recente conferma la necessità di intensificare sia gli sforzi di prevenzione che di gestione».

Il caso dell’Albania: turismo e acque reflue tra le cause principali del “beach litter

Attraversando il mare, la quantità di rifiuti ritrovati sulle spiagge non cambia molto, ma cambia la tipologia, dimostrando come la pulizia di queste strisce di terra dipenda da ciò che accade sia in mare che a terra, sul proprio territorio e su quello altrui. Analizzando il beach litter sulle coste albanesi, ad esempio, emergono caratteristiche specifiche che aiutano a ipotizzare interventi mirati di mitigazione. Grazie a un recente studio scientifico dell’Università di Cadice dedicato esclusivamente al litter sulle spiagge albanesi, si è osservato che, pur prevalendo frammenti e oggetti in plastica (82%) come altrove, nel caso dell’Albania essi derivano principalmente dal turismo locale e si mescolano a elementi provenienti da acque reflue.

Giorgio Anfuso Melfi, uno degli autori della ricerca, racconta che, oltre ai “soliti” rifiuti come mozziconi, tappi di bottiglia e frammenti plastici, ha trovato anche arredi da spiaggia abbandonati, come vecchie sdraio e ombrelloni: «Non comuni altrove e chiaramente legati agli stabilimenti balneari».

In Albania, seppur in modo stagionale, il turismo sembra essere la principale fonte di beach litter, mentre la pesca contribuisce in modo meno significativo. Secondo Anfuso Melfi, «è quindi necessario studiare interventi mirati per migliorare la consapevolezza dei bagnanti e potenziare le attività di pulizia da parte di Comuni e stabilimenti balneari».

I rischi per animali marini, turisti e comunità costiere

Che sia in mare o in spiaggia, plastica o mozziconi, gran parte dei rifiuti presenti nell’area adriatica «rischia di essere scambiata per cibo da pesci, uccelli, tartarughe e molti altri organismi marini, causando anche la morte, ad esempio se la plastica ostruisce l’apparato digerente o rilascia sostanze tossiche», spiega Falleri. «Il beach litter può anche danneggiare habitat naturali, come le biocenosi a coralligeno e le praterie di Posidonia, compromettendo la loro capacità di sostenere la vita marina. In questi casi, rappresentano una minaccia anche per spugne, briozoi, coralli e gorgonie, che restando intrappolati perdono la possibilità di nutrirsi».

Anche le comunità costiere sono vittime dei rifiuti marini, in particolare quelle che vivono di pesca e turismo. «A seconda del mare, spesso si trovano costrette a sostenere e finanziare attività di pulizia per ridurre l’impatto visivo, paesaggistico ed economico», aggiunge Falleri, riportando in particolare la voce di Marevivo Puglia. «Senza contare che questo tipo di inquinamento può anche rappresentare un rischio per la salute: alcuni rifiuti possono ferire o avvelenare, se sono in plastica o altri materiali tossici e finiscono nella catena alimentare».

È un pericolo per chi vive vicino a spiagge invase dai rifiuti, e i pescatori professionisti devono anche tenere conto dei danni economici: le reti e le attrezzature possono impigliarsi o danneggiarsi con i rifiuti galleggianti, riducendo le catture e aumentando i costi di manutenzione.

Il progetto Bluecircle: l’economia circolare per pulire le spiagge adriatiche

Pesci e organismi marini, pescatori e abitanti delle coste: con i rifiuti in spiaggia, tutti ci perdono in salute, alcuni anche economicamente. Nessuno ne trae davvero beneficio. Eppure, nessuna campagna di sensibilizzazione e raccolta ha finora ridotto significativamente il fenomeno. Per questo motivo, da circa dieci mesi è in corso la sperimentazione di un approccio di economia circolare grazie al progetto interregionale europeo Bluecircle (Boosting Circular Economy Solutions for Marine Litter Collection and Recycling in the Adriatic-Ionian Regions).

Destinato a Italia, Albania, Montenegro, Croazia, Grecia e Bosnia Erzegovina, il progetto non si limita a pulizie, raccomandazioni e controlli, ma testa nuovi metodi di trattamento dei rifiuti spiaggiati, «trasformando una criticità in un’opportunità». L’obiettivo è ambizioso, ma c’è tempo fino alla fine dell’estate 2027 e oltre un milione e mezzo di euro di fondi UE per raggiungerlo. Non tutti i sette partner sono ugualmente ottimisti: il più convinto è quello scientifico, l’autore dell’impianto sperimentale stesso, il Politecnico di Bari.

Tecnologie mobili per il trattamento dei rifiuti spiaggiati

Michele Notarnicola, a capo del team Bluecircle, è certo che il sistema mobile possa funzionare sulle spiagge. Nei prossimi mesi verrà testato prima in Italia e poi negli altri Paesi partecipanti, essendo un impianto piccolo e replicabile in qualsiasi contesto.

Il primo aspetto fondamentale riguarda la possibilità di raccogliere e trattare i rifiuti spiaggiati direttamente sulle coste adriatiche. «Per noi è essenziale intercettarli prima che vengano classificati come rifiuti urbani, perché altrimenti verrebbero considerati come “indifferenziati”, comportando una perdita di risorse e costi economici elevati», spiega Notarnicola. «Per questo ci siamo dotati di mini robot che aspirano gli oggetti ritrovati e li trasportano in un mini contenitore dove, con tre diverse tecnologie, selezioniamo le varie frazioni».

Anche se per l’osservatore casuale i rifiuti spiaggiati sembrano ammassi indistinti, chi vuole inserirli nelle filiere e ridurre la quota non recuperabile deve saperli distinguere. Nei cumuli trovati, plastica, vetro, alluminio e legno si mescolano con elementi naturali come Posidonia, piante acquatiche, alghe in decomposizione, sabbia, conchiglie e materiali di varie granulometrie. Occorre dividerli almeno in tre categorie: inorganici, organici naturali e antropici.

Le tre tecniche per separare e riciclare i rifiuti marini: densimetrica, aeraulica e triboelettrostatica

A ciascuna categoria corrisponde una tecnica di separazione:

  • Separazione densimetrica: divide sabbia e ghiaia in base al peso specifico, per poi reinserirle nell’ambiente o usarle come materia prima per il calcestruzzo.
  • Separazione aerodinamica (aeraulica): usa getti d’aria per isolare le frazioni più leggere (alghe, Posidonia), da restituire al mare o trasformare in compost, a seconda del degrado.
  • Separazione triboelettrostatica: la più innovativa, progettata dal Politecnico di Bari, separa la plastica.

«Utilizzando l’attrito, le particelle si caricano elettricamente in positivo o negativo, e vengono divise in base al comportamento superficiale», spiega Notarnicola. La plastica così separata può poi essere smaltita nei normali circuiti di raccolta. Con questo tridente tecnologico dell’economia circolare, Bluecircle punta a trattare 100 kg di rifiuti spiaggiati all’ora, con un impianto mobile trasportabile in 2–3 giorni.

Per ora, è in fase di test un prototipo da 10 kg/ora, che verrà collaudato su ogni costa adriatica, portando con sé anche campagne di sensibilizzazione e standard di classificazione. Perché nel bacino adriatico tutto possa circolare meglio — tranne i rifiuti.


Questo articolo è stato pubblicato da Osservatorio Balcani e Caucaso nel contesto del progetto “Cohesion4Climate” cofinanziato dall’Unione europea. L’UE non è in alcun modo responsabile delle informazioni o dei punti di vista espressi nel quadro del progetto; la responsabilità sui contenuti è unicamente di OBCT.

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