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L'analisi. Vi racconto come Israele, in due anni di guerra, si è isolata dal mondo

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03/10/2025

da Avvenire

Anna Foa  storica dell’ebraismo e della Shoah

La reazione corale di un Paese all'attacco terroristico del 7 ottobre 2023 ha passato il segno. Ricostruiamo quel che è successo, cercando di capire quali sono stati i punti di non ritorno

Gli eventi si susseguono senza sosta nelle tragiche vicende mediorientali. Mentre continuano la distruzione della Striscia di Gaza e il massacro dei suoi abitanti; mentre il governo israeliano minaccia l’annessione della Cisgiordania per impedire per sempre la creazione di uno Stato palestinese e intanto appoggia con l’esercito i coloni che ne attaccano e distruggono i villaggi; mentre continua il blocco dei rifornimenti alimentari e medicinali, essenziali alla vita, e a Gaza si continua a morire di fame, un gran numero di Stati, non ultimi il Canada, l’Australia e la maggior parte dei Paesi dell’Unione Europea riconoscono lo Stato palestinese. Non l’Italia, che si schiera accanto agli Stati Uniti di Trump e attribuisce a questo riconoscimento un valore meramente simbolico, se non addirittura un rischio per le trattative, non la Germania, forse impedita finora dai sensi di colpa per la Shoah. E l’opinione pubblica del mondo diventa sempre più ostile a quello che viene ormai, in buona parte di Israele come nel resto del mondo, definito “genocidio”.
Come si è arrivati a questi ultimi eventi? Ripercorriamone brevemente la storia, in questo secondo anniversario del terribile attacco terroristico del 7 ottobreGli eventi di quel giorno suscitarono, contrariamente a quanto si è detto da più parti per appoggiare le scelte di Netanyahu, una grande emozione. Ma essi furono rapidamente seguiti da una guerra contro Gaza – se vogliamo usare un termine, guerra, che è difficile applicare alla sproporzione esistente fra i terroristi di Hamas e l’esercito israeliano – che già metteva in conto, modificando le regole di ingaggio dei soldati, l’enorme aumento dei “danni collaterali”, cioè l’uccisione dei civili. Di fronte alle pressanti richieste degli israeliani di sapere perché il confine con Gaza fosse stato così sguarnito e perché i soccorsi avessero tanto tardato, il premier infatti scelse la guerra, che ricompattava necessariamente tutti i suoi oppositori in difesa del Paese, a prezzo però, nel suo indefinito protrarsi e nel continuo sabotaggio di qualsiasi trattativa, della vita della maggior parte degli ostaggi.

Gli eventi successivi, in tempi che all’inizio mai si sarebbero pensati così lunghi, hanno visto fasi belliche alterne che sono andate dall’impossibilità di vincere davvero Hamas sul terreno militare alle brevi guerre vittoriose contro gli Hezbollah in Libano e poi contro l’Iran, all’attacco definitivo a Gaza da parte dell’esercito israeliano, iniziato negli scorsi mesi, che ne sta portando a totale distruzione il territorio e causa migliaia di morti. Morti civili nella maggior parte, tutti accomunati dal governo israeliano ad Hamas, tutti definiti terroristi dalle destre estreme al potere nel Paese. Ai morti sotto i bombardamenti si aggiungono i morti per fame, una carestia indotta dal blocco dei rifornimenti per impedire che a distribuirli fossero le istituzioni dell’Onu, accusate dal governo di favorire Hamas. Il risultato è un evento che è ormai impossibile chiamare “guerra” e che sempre più viene definito, non solo nel resto del mondo ma anche dall’opposizione israeliana, come un “genocidio”.

Questi fatti sono accompagnati da un forte mutare dell’opinione pubblica, in Israele come nel resto del mondo, e da un fortissimo isolamento internazionale del Paese. In Israele, nei primi mesi lo sconvolgimento di fronte all’orrore del 7 ottobre ha generato anche in una parte della sinistra pacifista e favorevole alla convivenza con i palestinesi una sostanziale adesione alla scelta militare. Adesione poi, anche se con lentezza, messa in crisi dal numero dei soldati caduti, dal sostanziale abbandono degli ostaggi, dalla consapevolezza dell’inutilità della scelta militare come anche dal crescere del numero dei morti tra i civili palestinesi, dall’incremento in Cisgiordania dei nuovi insediamenti, dall’espulsione dei palestinesi, dalle aggressioni ai villaggi arabi. Questa guerra “di difesa” cominciava ad apparire come una gigantesca operazione che mirava non a sconfiggere Hamas e a liberare gli ostaggi, ma all’annessione dei territori occupati e all’espulsione dei palestinesi e che aveva il suo centro nella Cisgiordania: la sede del Governo provvisorio palestinese che avrebbe dovuto, negli accordi di Oslo, essere il nucleo del futuro Stato palestinese. Le manifestazioni dell’opposizione riprendono così forza, all’inizio soprattutto come pressione sul governo per arrivare ad un accordo che riportasse a casa gli ostaggi, poi anche come denuncia del massacro che era in atto a Gaza. Nei cortei cominciano, dopo il blocco dei rifornimenti nella primavera di quest’anno, ad apparire le foto dei bambini palestinesi denutriti, foto impressionanti che ricordano il Biafra o il ghetto di Varsavia.

Più che i bombardamenti e le decine di migliaia di morti sotto le bombe, a determinare il cambiamento dell’opinione pubblica sono la carestia indotta, e negata pervicacemente da Netanyahu, e il blocco dei rifornimenti a pochi chilometri dei luoghi dove i palestinesi muoiono di fame. Emozione suscitano anche gli spari contro i civili affamati da parte dell’esercito e della nuova organizzazione preposta dal Governo e dagli Usa a sostituire le distribuzioni coordinate dall’Onu. Crescono le manifestazioni contro Netanyahu della sinistra israeliana, ormai divenute quasi giornaliere. E cresce l’isolamento di Israele da parte del mondo. Misure contro Israele, boicottaggi economici e culturali, blocco dell’invio di armi vengono chieste anche da Paesi, istituzioni, gruppi fino a quel momento esitanti o contrari. Solo gli Stati Uniti di Trump restano come inamovibile supporto di Israele.

Le ultime vicende vedono da una parte un precipitare della situazione nella Striscia di Gaza, dove da alcune settimane l’esercito sta occupando la città di Gaza distruggendo le case, dopo aver emanato ordini di sfollamento che per molti equivalgono ad una condanna a morte. File interminabili di sfollati, accatastanti in tutto ciò che è munito di ruote, camion, automobili, carretti, lasciano la città portando con sé materassi, vestiti, tutto il possibile. Ogni giorno muoiono fra i 50 e i 100 civili, in questo atroce cammino verso l’esilio. Dall’altra, si aprono degli spiragli a livello internazionale. Il recente riconoscimento dello Stato di Palestina non è, infatti, solo simbolico, come si dice da più parti, non ultima da parte di quanti lo hanno, come l’Italia, rifiutato rinviandolo a tempo indeterminato. Si tratta invece innanzi tutto di un forte sostegno ai palestinesi e alla loro identità, un sostegno da parte dell’Europa e non solo da parte di Paesi che derivavano dal loro essere usciti dall’oppressione coloniale la loro solidarietà con i palestinesi. È un forte riconoscimento morale, nel momento in cui a Gaza si realizza uno sterminio e in Cisgiordania il governo Netanyahu si accinge all’annessione. In secondo luogo, un riconoscimento implica che lo Stato riconosciuto sia oggetto di rapporti con gli altri Stati. Si creeranno consolati o ambasciate? Quali saranno i legami economici e culturali che un riconoscimento deve implicare? Possono gli Stati vendere armi a chi le usa per fare la guerra a uno Stato da loro riconosciuto? Certo, questo comporta che al riconoscimento seguano altri passi. Ma sarà comunque in ogni caso più difficile distruggere i territori dello Stato di Palestina e cacciarne o eliminarne gli abitanti. Il diritto internazionale è, lo sappiamo, sempre più demonizzato e vilipeso, e proprio da Netanyahu e da Trump, ma esiste ancora, e questa potrebbe essere l’occasione per ridargli forza e autorevolezza.
Sono sottili tracce di luce nella notte che stiamo vivendo, non solo in Palestina e in Israele ma anche qui, nella vecchia Europa sempre più in difficoltà fra le aggressioni dello zar Putin e quelle solo verbali di Trump. Sta a noi farle diventare un faro che dissolva l’oscurità.

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