Dopo la firma con gli Alleati e la fuga del re e Badoglio da Roma, l'esercito fu lasciato allo sbando. Moltissimi soldati scelsero di opporsi al nazi-fascismo e di non aderire alla Rsi. Si stima che 730 mila di loro furono deportati dal Reich e usati come arma di ricatto da Hitler nei confronti del Duce. In detenzione ne morirono tra i 37 e i 50 mila. La loro storia.
L’8 settembre 1943, a Cassibile, nel Siracusano, veniva firmato l’atto forse più importante, e per molti aspetti drammatico, vissuto dall’Italia nel Ventennio fascista e del periodo bellico successivo: il celebre armistizio (detto anche “breve” o “corto”), che prevedeva la resa incondizionata del nostro Paese agli Alleati. Subito dopo la firma, il re Vittorio Emanuele III e il maresciallo Badoglio, insediatosi a capo del governo dopo la caduta di Mussolini, avvenuta il 25 luglio di quello stesso anno, temendo le ritorsioni dei tedeschi, e nella fattispecie l’occupazione nazista di Roma, pensarono bene, anziché di organizzare la difesa della Capitale, di scappare, abbandonando l’Italia nel totale caos. A cominciare dalle forze armate, lasciate completamente allo sbando e, di fatto, consegnate ai tedeschi, proprio nel momento in cui l’esercito sarebbe stata un’importante arma non solo militare, ma anche istituzionale e politica da utilizzare nelle trattative con gli Alleati e per contrastare la prevedibile reazione tedesca. A ulteriore riprova, se ancora ce ne fosse bisogno, della gestione ambigua e irresponsabile del duo re-Badoglio. Nonostante le condizioni di totale confusione, i militari italiani, abbandonati a se stessi, nella stragrande maggioranza dei casi diedero vita a quella che si potrebbe definire la prima vera resistenza antifascista, rendendosi protagonisti anche di decine di atti eroici, da Cefalonia a Lero, da Corfù a Porta San Paolo, da Acerra a Piombino. Senza contare il contributo determinante, in uomini e armi, alla nascita delle prime formazioni partigiane.
Soldati italiani dopo l’annuncio dell’armistizio a Brera, Milano (Getty Images).
Il no alla Repubblica fantoccio di Salò, le deportazioni e la “marcia dei generali”
Soprattutto, la stragrande maggioranza dei militari disse no alla repubblica di Salò, lo Stato fantoccio creato dai tedeschi all’indomani della liberazione di Mussolini dalla sua prigionia a Campo Imperatore. La scelta di non ingrossare le file dei collaborazionisti repubblichini non fu di sicuro indolore, ma certamente convinta. Dopo il disarmo, infatti, ai nostri soldati venne data un’alternativa secca: continuare a combattere accanto ai tedeschi o finire nei campi di prigionia in Germania. Poco meno di 100 mila uomini, qualcuno per convinzione, ma i più per evitare la deportazione, scelsero di affiancare i militari nazisti. Ma tutti gli altri (il 70 per cento dei soldati e il 78 per cento degli ufficiali) si rifiutarono di prestare giuramento alla Repubblica Sociale, rimanendo fedeli al giuramento fatto al re. Vennero catturati, rastrellati e inviati, come prigionieri di guerra, in vari campi di detenzione in territorio tedesco. Definiti dai tedeschi «franchi tiratori» i militari italiani furono sottoposti, nei diversi campi e nelle varie “installazioni punitive”, a terribili vessazioni e crudeltà, per esempio una famosa “marcia dei generali”, episodio avvenuto in Polonia nel 28 gennaio 1945. Allora, di fronte all’impetuosa avanzata dell’Armata Rossa, i tedeschi decisero l’evacuazione del campo di concentramento Offizierslager 64Z di Schokken, con il conseguente trasferimento degli internati a Luckenwalde, località a sud di Berlino. Durante il trasferimento, che avveniva sotto forma di una “marcia della morte”, tanto cara agli aguzzini nazisti, diversi ufficiali italiani, imprigionati proprio dolo l’8 settembre, furono trucidati senza pietà.
Il maresciallo Badoglio con il re Vittorio Emanuele III (Getty Images).
Il cambio di status da prigionieri a internati e il ricatto di Hitler all’alleato fascista
Presto, tuttavia, i tedeschi decisero di modificare il loro status in internati militari. Questo non certo per ammorbidire le loro condizioni, anzi: il passaggio da prigionieri a militari serviva ai carcerieri per poter bellamente infischiarsene delle garanzie previste dalle Convenzioni di Ginevra del 1929. Con il risultato di lasciare i prigionieri in una sorta di limbo giuridico e, quindi, totalmente esposti all’arbitrio esclusivo di Berlino. Non per caso, vennero, per esempio, respinte le ripetute richieste ufficiali della Croce Rossa Internazionale per poter dare assistenza sanitariai. E pare anche fosse stato Hitler in persona, nonostante i rapporti con Mussolini, a sollecitare quel cambio di status. D’altre parte non è un mistero che l’armistizio dell’8 settembre avesse esacerbato i rapporti tra i due eserciti. I militari italiani, definiti spregiativamente come Badoglio-Truppen, venivano considerati ne più ne meno che infidi traditori. Anche se alcuni documenti tedeschi dimostrano come ben prima dell’armistizio, cioè già all’indomani della caduta di Mussolini, la Germania avesse manifestato il proposito di catturare tutti i militari italiani in caso di defezione dell’alleato. Qualcuno, infine, ha osservato che poter tenere in “ostaggio” centinaia di migliaia di italiani offriva al Führer un notevole potere ricattatorio nei confronti dell’alleato fascista.
Campo di internamento per militari italiani catturati dai tedeschi dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943 (Foto di propaganda di guerra nazista proveniente dal Deutsches Bundesarchiv, firmata “Schwahn”).
Lo sfruttamento dei militari internati nell’industria bellica nazista
La modifica di status, infine, non certo per importanza, offriva al Terzo Reich l’opportunità di poter sfruttare centinaia di migliaia di giovani soldati come preziosa risorsa di manodopera sfruttabile a piacere. Non a caso, venne sabotato ogni tentativo da parte della Rsi di riportare in patria i propri militari, così come Berlino cercò di evitare il più possibile di convertire gli internati in “volontari” da affiancare alle proprie milizie. Qualcuno, a questo proposito, ha infatti calcolato che il numero dei militari italiani impiegati nelle varie formazioni dell’esercito tedesco non superò mai le 62 mila unità, ovvero meno del 10 per cento degli internati. Per quanto riguarda i lavori svolti, si sa che i nostri militari vennero impiegati perlopiù nelle attività agricole e, soprattutto, dell’industria bellica, oltreché nell’industria pesante, nell’edilizia e nelle attività minerarie. Le condizioni di lavoro degli Imi erano disumane, in termini di orari, vitto, alloggio, vestiario e igiene. E questo comportò inevitabili drammatiche conseguenze in termini di malattie, dalla tubercolosi alla polmonite, dalla pleurite a malattie gastro-intestinali a vere e proprie epidemie, per esempio di tifo. E senza contare punizioni, torture ed esecuzioni sommarie. Solo nell’estate del 1944, dopo vari e inutili tentativi diplomatici, a seguito dell’incontro in Germania tra Hitler e Mussolini, il duce la conversione degli Imi in “lavoratori civili“, mitigandone le condizioni di vita. Ma era tardi.
Mussolini visita i soldati (Getty Images).
I nazisti deportarono circa 730 mila soldati italiani, di cui dai 37 ai 50 mila morirono durante la detenzione
Il tema dei militari italiani internati ha ricevuto solo negli ultimi anni un’adeguata attenzione storiografica, che ha consentito di conoscere meglio questa drammatica pagina della nostra storia. Rivelando anche aspetti di grande rilievo. Per esempio quello della loro partecipazione resistenziale. Si sa, per esempio, che tra l’ottobre 1943 e il settembre del 1944, il settimanale La Voce della Patria, pubblicato a Berlino, e unico canale di comunicazione degli Imi con l’esterno, svolse un’importante attività per mobilitare il sostegno della Rsi agli internati italiani, ma non solo. All’interno degli Imi venne anche organizzata una rete di resistenza che, per forza di cose, poté esplicarsi solo come resistenza passiva contro nazismo e fascismo. Vennero anche create cellule e radio clandestine. Ed è sempre grazie alla rinnovata attenzione storiografica se oggi conosciamo in maniera meno approssimativa i “numeri” del fenomeno. Mario Avagliani e Marco Palmieri, autori del saggio a oggi più completo e organico sull’argomento, I militari italiani nei lager nazisti. Una Resistenza senz’armi 1943-45(Il Mulino, 2020), scrivono che su un totale approssimativo di circa due milioni di soldati, i tedeschi ne disarmarono e catturarono la metà. Di questi, poco meno di 200 mila riuscirono a evitare la deportazione. Tolte le vittime, i fuggiaschi e gli aderenti alla Rsi, vennero quindi deportati circa 730 mila militari italiani. Non è stato invece definito ufficialmente il numero degli internati morti durante la detenzione, ma le stime più accreditate oscillano tra i 37 e i 50 mila. I reduci poterono far ritorno in Italia solo tra l’estate del 1945 e il 1946, e furono ricoverati in almeno 40 centri di accoglienza. Il ricordo dell’8 settembre merita quindi di essere l’occasione per rendere omaggio alle molte centinaia di militari italiani che dissero no al nazifascismo, pagando un prezzo altissimo.
09/09/2024
da Lettera 43