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L’ascesa irresistibile del jihadista riluttante

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11/11/2025

da Il manifesto

Alberto Negri

Siria .Al Sharaa cerca protezione da Trump: apre ad una base Usa a sud di Damasco per garantirsi da Israele

Il nuovo Medio Oriente forse non sarà come lo immaginavano gli svergognati cantori nostrani del genocidio di Gaza. Israele non avrà carta bianca totale nella regione come alcuni speravano qui e a Tel Aviv. Per la prima volta un presidente siriano è andato in visita a Washington dall’indipendenza nel 1946. Ma soprattutto è la prima volta che un ex esponente di Al Qaeda, Ahmed Al Sharaa, è stato invitato alla Casa Bianca, a 24 anni dagli attentati negli Stati uniti dell’11 settembre 2001. Proprio lui che in Iraq era stato imprigionato dagli americani a Camp Bucca, insieme a Al Baghdadi, il futuro capo del Califfato da cui Al Sharaa si divise nel 2013, per poi separarsi tre anni dopo anche da Al Qaeda.

Un curriculum a dir poco controverso, completato in ottobre dalla sua elezione, indiretta, alla presidenza da parte di “consigli popolari” dove la metà dei membri era stata indicata direttamente dallo stesso Al Sharaa. Se a questo aggiungiamo il congelamento della costituzione e i pogrom contro alauiti e drusi non si può certo dire che abbia credenziali democratiche impeccabili. Ma in un Medio Oriente dove il maggiore alleato Usa e occidentale, Benjamin Netanyahu, è inseguito da un mandato di cattura per crimini di guerra della Corte penale internazionale è accettata anche la fedina del leader siriano.

Alla prossima magari sarà ricevuto dal papa, visto che con i cristiani di Idlib Al Shaara era in buoni rapporti e ne ha comunque massacrati meno di quanto abbia fatto l’Isis, diventato un nemico comune con gli Usa. Un’alleanza sancita, a favore di telecamere, anche da una partitella a basket del presidente siriano con i militari americani in Siria. Dal jihadista errante e riluttante Al Shaara – che aveva già stretto la mano a Trump in Arabia saudita e a un drappello di leader occidentali (tra cui la Meloni) – ormai ci aspettiamo di tutto.

Lui è una sorta di jihadista “riformato” dal suo principale sponsor Erdogan, il quale in Turchia non solo è il capo ma si fa passare nella vox populi anche come imam. Al Sharaa, in casa bastonatore delle minoranze alauite e dei drusi, è un salafita dichiarato, esponente di un mondo sunnita che ha preso la sua rivincita contro l’Iran sciita, un tempo, con la Russia di Putin, grande protettore dell’ex presidente Bashar Assad. Tra l’altro Al Sharaa è già stato pure al Cremlino, molto interessato a negoziare la riapertura della base navale siriana di Tartus, l’unica russa rimasta nel Mediterraneo. Nel triangolo Trump-Erdogan-Putin c’è una visione del Medio Oriente che preoccupa assai Israele: lo stato ebraico, che occupa il Golan dal 1967, è alla porte di Damasco, diffida di Erdogan e di Al Sharaa, ha bombardato tutte le installazioni militari siriane e tiene il nuovo presidente nel mirino. Letteralmente: Al Sharaa è praticamente ai domiciliari e Israele può farlo fuori quando vuole.

Per questo Al Sharaa cerca la protezione americana ed è pronto a far aprire una base Usa a sud di Damasco come garanzia contro eventuali operazioni militari israeliane. L’incremento della presenza militare americana è un messaggio a Israele che vuole una Siria divisa, frammentata e debole. Ma anche a Erdogan e alle sue aspirazioni neo-ottomane sulla Siria, dove i militari turchi che occupano alcuni distretti del nord siriano sono stati gli architetti della rapida presa del potere nell’inverno 2024 da parte di Al Sharaa.

Il viaggio di Al Sharaa riflette un cambio strategico dell’amministrazione americana. Durante il suo primo mandato, la posizione di Trump era che gli Stati Uniti dovessero uscire dalla Siria e dal Medio Oriente, quelle che lui chiamava le «guerre infinite». Ha condotto la sua campagna elettorale con il messaggio “America First” e voleva ritirarsi da questi conflitti.

Ma ora Washington ha ribaltato questa posizione, in gran parte perché alleati come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Turchia e Giordania lo stanno spingendo ad assumere un ruolo più forte in Siria. Soprattutto le petromonarchie del Golfo – anche quelle entrate nel Patto di Abramo – temono la straripante egemonia militare israeliana, al punto che Riad si è spinta a mettersi sotto l’ombrello nucleare del Pakistan. Anche per questo Trump deve ergersi a protettore di Al Shaara.

Al Sharaa è arrivato dopo mesi di segnali distensivi tra Washington e Damasco: la rimozione del nome del leader siriano e di altri funzionari del governo dalla lista dei “terroristi globali”, la revoca della sua organizzazione, Hayat Tahrir al-Sham, dalla lista nera e la richiesta americana accolta dall’Onu di togliere le sanzioni a Damasco per avviare l’apertura alla cooperazione in materia di sicurezza e ricostruzione. La Siria ha le casse vuote e senza aiuti rischia di disfarsi proprio in una fase in cui Gaza, rasa al suolo, è moribonda e il Libano, bombardato da Israele nel Sud, roccaforte degli Hezbollah, non ce la fa più ad accogliere i profughi della regione, tra i quali ci sono circa 700mila palestinesi residenti da decenni in Siria e che sono già diventati nei mesi scorsi “merce” di scambio degli Usa con il presidente siriano.

Tutto questo avviene dopo che il 9 settembre il premier israeliano Netanyahu ha commesso l’errore più grave della sua carriera di indefesso massacratore di arabi: bombardare Doha, ovvero un alleato degli Stati uniti che in Qatar vendono armi a tutto spiano e hanno di stanza nell’emirato 10mila marines. Trump può ammettere qualunque cosa ma ha un principio basilare: i suoi migliori clienti non si toccano.

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