Economia italiana. La stagnazione dei salari italiani non dipende solo dalla crescita anemica della produttività, ma da precise scelte di politica economica effettuate da governi di vario orientamento politico
Gli ultimi dati economici di Eurostat mostrano inequivocabilmente che il re, o la regina, è nudo. Contrariamente a quanto sostenuto incessantemente dalla premier Meloni, l’economia italiana non se la sta passando troppo bene: nel 2023, il reddito disponibile reale lordo delle famiglie è in calo a fronte di una crescita di quello medio dell’Unione europea. Più precisamente, fatto 100 il reddito italiano del 2008, quello del 2023 è pari a 93,74, mentre quello del 2022 si attestava a 94,15. Solo la Grecia, che ha attraversato una gravissima crisi finanziaria accompagnata da misure di austerità fiscale draconiane, ha fatto peggio di noi in Europa. È vero che alcuni indicatori come il tasso di occupazione e quello di disoccupazione sono migliorati nell’ultimo anno, ma sono ancora inferiori alle media Ue.
Il deludente andamento dei redditi italiani è dovuto al calo dei salari reali che sono stati erosi dell’inflazione. Secondo i dati Istat, nel triennio 2021-2023 mentre i prezzi al consumo crescevano del 17,3%, i salari aumentavano solo del 4,7%. Tale dinamica non è riconducibile solo alla recente spinta inflazionistica dovuta principalmente allo shock energetico, ma viene da più lontano: l’Italia è l’unico Paese sviluppato dove i salari reali non sono cresciuti negli ultimi trent’anni (Ocse), con un calo decennale del 4,5% (Istat).
La stagnazione dei salari italiani non dipende solo dalla crescita anemica della produttività, ma da precise scelte di politica economica effettuate da governi di vario orientamento politico. Studi empirici di ricercatori del Fondo monetario internazionale e della Banca d’Italia mostrano infatti che le riforme strutturali per flessibilizzare il mercato del lavoro italiano hanno portato a una crescita dei contratti a termine e di quelli part-time, aumentando la precarietà e la disuguaglianza salariale. La maggiore flessibilità del lavoro può aver contribuito a rallentare la crescita economica del nostro Paese, dato che chi deve saltare da un contratto a tempo determinato all’altro non riesce ad accumulare competenze ed esperienza.
Tale situazione richiede un irrigidimento del mercato del lavoro, per esempio seguendo l’esempio spagnolo, e l’introduzione del salario minimo. Numerose ricerche empiriche hanno infatti mostrato che il salario minimo aumenta le retribuzioni dei lavoratori senza ridurre l’occupazione. Non solo, in Paesi come la Germania e il Brasile, il salario minimo ha aumentato la produttività, riallocando i lavoratori presso le imprese più competitive. Inoltre, in tempi d’inflazione, un salario minimo indicizzato, come ad esempio quello presente in Francia, protegge le retribuzioni dei lavoratori, soprattutto quando la debolezza dei sindacati si manifesta in un’assenza di conflitto sociale. Purtroppo, il governo Meloni ha ignorato i risultati delle ricerche economiche più recenti, perseguendo un’ulteriore flessibilizzazione del mercato del lavoro e opponendosi strenuamente all’introduzione del salario minimo.
Il peggioramento della condizione economica dei lavoratori a basso e medio reddito potrebbe essere alleviato da interventi fiscali, ma le scelte del governo sono pressoché inutili o, peggio, vanno nella direzione opposta. Come mostra il recente rapporto dell’Ufficio parlamentare di bilancio, una cospicua fetta dei tagli fiscali è stata divorata dal fiscal drag, perché a fronte di un’alta inflazione non sono stati aumentati i limiti di reddito imponibile dei vari scaglioni. Oltre a questo gioco delle tre carte, con una serie di provvedimenti il governo ha ridotto la progressività del nostro sistema fiscale (es. estensione dei regimi forfettari) e indebolito la lotta all’evasione fiscale (es. condoni e concordato preventivo). Questi interventi avvengono in un sistema fiscale già sostanzialmente “flat”, dove il 5% più ricco degli italiani paga un’aliquota effettiva inferiore al resto della popolazione.
Nonostante i proclami auto-celebrativi degli esponenti della maggioranza, l’economia italiana non sta andando a gonfie vele, ma sta navigando in acque pericolose. A fronte di una crescita del Pil moderata e in calo nel prossimo anno, il governo sta perseguendo una politica economica volta esclusivamente a ottenere il consenso delle categorie di elettori che lo sostengono, ignorando l’aumento delle disuguaglianze ed evitando di stabilizzare le finanze pubbliche. La narrazione panglossiana della premier Meloni potrebbe presto scontrarsi duramente con la realtà, quando gli ingenti fondi del Pnrr finiranno e le nuove regole fiscali europee imporranno un’improrogabile correzione di bilancio.
04/09/2024
da Il manifesto