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Le scappatoie delle banche per continuare a finanziare le fossili

Le scappatoie delle banche per continuare a finanziare le fossili

Sulle 60 maggiori banche, 38 hanno politiche che escludono le fonti fossili. Peccato solo che siano piene di scappatoie

«Non possiamo salvare un pianeta in fiamme con una manichetta antincendio di combustibili fossili». Lo diceva il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres nel dicembre 2023, al termine della Cop28 di Dubai. Un messaggio che è rimasto sostanzialmente inascoltato da parte delle 60 banche più grandi a livello globale, le quali hanno impegnato, nell’ultimo anno, 705 miliardi di dollari proprio per tenere in vita le società operanti nelle fonti fossili. Da quando è stato firmato l’Accordo di Parigi nel 2015, che ha stabilito il limite del riscaldamento globale «ben al di sotto» dei 2 gradi, il totale degli investimenti nelle fossili ammonta a oltre 6.900 miliardi di dollari. Di questi, circa la metà sono stati impegnati proprio dalle banche che fanno parte della Global Oil & Gas Exit List (GOGEL) e la Global Coal Exit List (GCEL). Due reti che hanno esattamente lo scopo di uscire dal modello fossile.

Ecco qualche numero tratto dal report Banking of Climate Chaos. Delle 60 banche analizzate, 38 hanno qualche politica di restrizione ai finanziamenti a progetti fossili ma solo due hanno in realtà politiche realmente restrittive (La Banque Postale e Danske Bank). 43 istituti hanno promesso di escludere il carbone, ma solo 18 (tra cui Crédit Mutuel, La Banque Postale, Unicredit) esplicitano l’esclusione del carbone termico (cioè quello destinato alle centrali termoelettriche) e solo 8 escludono il carbone metallurgico (quello destinato alle acciaierie).

Le politiche contro oil&gas sono di più, ma sono insufficienti nel breve termine

Nel 2023, le principali banche hanno fatto lenti progressi nell’adozione di nuove politiche relative all’esclusione del carbone termico. Molti istituti hanno accelerato il ritmo di adozione di politiche di esclusione di petrolio e gas convenzionali, che si aggiungono a quelle passate dedicate petrolio e gas non convenzionali (es. sabbie bituminose e fracking). Una buona notizia, poiché è il segno che le banche stanno gradualmente riconoscendo che anche gas e petrolio convenzionali hanno il loro impatto e pertanto vanno evitati.

Ma, spiega Banking on Climate Chaos, questo aumento è più in termini quantitativi che in termini qualitativi. In generale, tali politiche risultano ancora troppo deboli nel contrastare l’espansione di giacimenti di gas e petrolio. Solo La Banque Postale e Danske Bank hanno politiche “di qualità”. Questo perché molti preferiscono adottare obiettivi di decarbonizzazione, piuttosto che politiche di esclusione mirate. Purtroppo questi impegni a medio e lungo termine volti a ridurre le emissioni “finanziate” non sono sufficienti a impedire alle banche di alimentare l’espansione fossile nel breve termine.

Tendenze di investimento: nel 2024 ancora gas e carbone

In linea con il rapporto Banking on Climate Chaos dello scorso anno, sono poche, nove su 60, le banche che hanno rafforzato le proprie politiche di esclusione dei combustibili fossili. Tra queste, Danske Bank è la più ambiziosa. La banca danese vuole escludere tutti i finanziamenti per le società di esplorazione e produzione di petrolio e gas che presentano piani di espansione.

Detto questo, per molte delle banche analizzate, il gas naturale liquefatto è un ottimo affare. Il GNL, infatti, è quello che ha trainato più di altre fonti fossili gli investimenti bancari, lungo tutta la filiera: estrazione, importazione, esportazione. E se il GNL va forte, il carbone frena, benché siano ancora molto lenti i progressi nell’adozione di politiche per disinvestire nel carbone termico e metallurgico.

A foraggiare il carbone sono innanzitutto le banche cinesi (tra le più “sporche”, Agricultural Bank of China e Bank of Communications). Ma anche una manciata di banche europee, per la precisione di Germania, Paesi Bassi, Spagna e Danimarca. Anche Bank of America ha un ruolo predominante: l’istituto americano ha di fatto annullato la politica adottata in passato che escludeva il carbone termico. 

Il ruolo delle banche regionali

«Quando si considerano le dimensioni degli asset, alcune banche di medie e piccole dimensioni nel nostro rapporto finanziano in modo sproporzionato i combustibili fossili» scrivono gli autori del rapporto. Truist, ad esempio, è stato incluso in Banking on Climate Chaos solamente quest’anno. Con 555 miliardi di dollari, si colloca al 58esimo posto in termini di patrimonio ma al 20esimo in termini di patrimonio destinato alle fossili, per un totale di 14,2 miliardi di dollari nel 2023. In termini percentuali, Truist si trova al primo posto.

Al quarto c’è un’altra banca medio piccola: la statunitense PNC, con 557 miliardi di dollari di asset. Si colloca infatti al 26esimo posto per finanziamento totale ai combustibili fossili nel 2023, con 12,15 miliardi di dollari. Altre banche – tra cui  le canadesi Scotiabank, CIBC, Bank of Montreal e Royal Bank of Canada – vanno in questa direzione, surclassando addirittura in termini percentuali le loro controparti statunitensi come JPMorgan Chase, Citi e Bank of America. Si tratta di un trend stabile: è sempre più chiaro, rapporto dopo rapporto, quanto il sostegno delle banche regionali sia fondamentale per la sopravvivenza delle fossili. 

Ma c’è sempre qualche scappatoia

Anche quest’anno, Banking on Climate Chaos evidenzia come l’impatto nel mondo reale di queste politiche rischi di essere minimo, dal momento che a molte banche mancano processi interni per applicarle. In tanti casi fissano degli obiettivi, senza avere percorsi credibili per raggiungerli. 

Ci sono per esempio banche che limitano il finanziamento al carbone termico ma non a quello metallurgico. Banche – tra cui le americane TD, RBC e Citi e le europee BBVA e Deutsche Bank – che applicano politiche di esclusione solo a nuovi clienti e non ai vecchi. Banche che fanno distinzioni tra “emissioni finanziate” direttamente ed “emissioni agevolate”, sostenendo che le seconde non abbiano lo stesso impatto delle prime. Vi sono poi società che si indebitano con le banche senza specificare la natura dei propri proventi. Tra questi, possiamo tranquillamente supporre che ve ne siano anche di legati ai combustibili fossili.

Ma la regina delle scappatoie riguarda in qualche modo il greenwashing. Perché molte politiche bancarie che intendono limitare i finanziamenti alle fossili spesso includono eccezioni per quelle aziende con “piani di transizione credibili”. Tale terminologia, volutamente non meglio definita, lascia la porta aperta a futuri prestiti o sottoscrizioni praticamente a qualsiasi azienda del settore che faccia parte del portafoglio della banca.

È il caso di UBS, che finanzia aziende con una «strategia di transizione in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi», senza specifiche più precise. Anche Deutsche Bank e CaixaBank adottano eccezioni di questo tipo. Ma chi ha piani di espansione dei combustibili fossili, ça va sans dire, non può avere un piano di transizione credibile. Quindi, qualunque azienda intenda spostare i propri proventi dal petrolio e dal carbone verso il GNL – e sono parecchie – non dovrebbe essere sostenuta dalle banche. Eppure, questo succede regolarmente. Solo La Banque Postale esclude in modo esplicito anche il GNL.

13/05/2024

da Valori

Maurizio Bongioanni

 

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