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Lehman Brothers, la crisi del 2008 ha cambiato il mondo e il capitalismo. In peggio

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Il 15 settembre di sedici anni fa, Lehman Brothers, una delle più prestigiose e antiche banche commerciali degli Stati Uniti, dichiarava fallimento e chiudeva i battenti. Le sue azioni erano crollate a due dollari, con un calo del 97%, a causa dell’ingente debito accumulato acquistando titoli finanziari diventati improvvisamente tossici, cioè invendibili. Era l’apice, e anche l’emblema, della crisi del capitalismo finanziario scoppiata nel 2008 ma preparata negli anni precedenti. Una storia, questa, del fallimento di una grande banca e del probabile fallimento di altre senza l’intervento dello stato, che nessuno pensava si potesse ripetere dopo la crisi del 1929.

In effetti si tratta però di due crisi gemelle. Eguali sono le cause, essenzialmente l’enorme debito creato dall’innovazione finanziaria spinta da una esagerata avidità. Negli anni Venti la novità era rappresentata delle famiglie che si indebitavano per comprare il nuovo prodotto lanciato dal capitalismo monopolistico, le azioni di borsa. Perché non farlo, visto che il loro valore aumentava del 20% all’anno? Nel 2008, troviamo ancora protagonista il debito e l’innovazione finanziaria, diventata stavolta più sofisticata con l’invenzione della cosiddetta finanza derivata. I titoli derivati rappresentano nuovi debiti a partire da quelli esistenti, creati con una sofisticata matematica finanziaria e densi gli algoritmi, ma fragili, come in un castello di carte che sta in piedi fino a che la base, in questo caso i debiti immobiliari, regge

Innovazione finanziaria spinta soprattutto dall’avidità del settore bancario che offriva generosamente prestiti per impacchettare i vecchi debiti in quelli nuovi come mostrato nel bel film La grande scommessa. Sembrava che l’ingegneria finanziaria potesse finalmente realizzare l’impossibile: generare profitto senza rischiare nulla.

Se le cause sono le stesse, completamente differenti sono stati invece gli esiti, oltre che la comune e pesante recessione. Dalla crisi del 1929, protratta per qualche anno dalle politiche allora liberiste e protezionistiche dello sfortunato presidente Herbert Hoover, si è usciti solo nel 1933 con la nuova presidenza Roosevelt e il New Deal. Il nuovo presidente, per così dire, ha incatenato il capitalismo, a partire dalla nuova legge bancaria, la legge Glass-Stegall, prontamente recepita anche dal nostro regime fascista. Poi altri provvedimenti, alcuni dei quali fatti decadere dalla Corte Costituzionale, hanno tentato di regolamentare l’economia. Molti hanno resistito, come ad esempio la nascita del sistema pensionistico, creato nel 1935 con il Social Security Act. La crisi finanziaria aveva travolto la fiducia nel libero mercato, anche perché oramai l’attività produttiva cominciava ad essere dominata dai grandi trust. Il risultato finale della ripresa economica è stato raggiunto, anche se ci sono narrazioni differenti. Diciamo, a posteriori, che la crisi è stata superata in senso keynesiano: più stato finanziatore ma soprattutto regolatore.

La crisi di 2008 ha portato invece l’economia su di un binario completamente differente, lasciando da parte le cause e concentrandosi sugli effetti immediati, la caduta del Pil e l’aumento ella disoccupazione. Il colossale debito accumulato ed esploso con la crisi è stato pagato dai contribuenti con il debito pubblico e con la creazione di moneta, due rimedi classici. È mancato completamente il coraggio di regolare la finanza, approvando ad esempio nuova normativa internazionale del tipo Glass-Stegall che ponesse un freno alla miriade di prodotti finanziari tossici che il mercato finanziario produce. Oggi la finanza internazionale non solo si è ripresa, ma viaggia con il vento in poppa, a partire dai super profitti bancari.

Il capitalismo finanziario in coma nel 2008 è stato salvato dallo stato e dalle banche. Esemplare è il caso degli Usa, dove i disavanzi annuali del bilancio pubblico dopo il 2008 sono arrivati anche al 10% del Pil, altro che Patto di stabilità europeo. Il debito privato è stato trasformato in debito pubblico e le enormi perdite sono state socializzate. Prima della crisi il debito Usa era di 9.492 miliardi, ora ha raggiunto la cifra astronomica di 34.831 miliardi, un aumento del 400% in appena quindici anni e la crescita non sembra fermarsi. La nuova dottrina del debito salvifico ha convinto anche i conservatori repubblicani, una volta fieri sostenitori del bilancio in pareggio. Ma fare debito quando la domanda aggregata è debole rientra pienamente nella logica economica, anche se la sua dimensione comincia a essere un fattore preoccupante.

Più paradossale è stata invece la vicenda monetaria. Per salvare il sistema bancario dalla catena di fallimenti, le banche centrali hanno capovolto ogni sana regola finanziaria, cominciando prima negli Usa e poi nella Ue ad acquistare in maniera massiccia titoli e obbligazioni che il mercato non voleva. Di conseguenza il bilancio della Federal Reserve si è gonfiato a dismisura. Prima della crisi la Fed possedeva titoli per 918 miliari, diventati 2.187 appena l’anno dopo. Il diluvio monetario non si è per nulla esaurito ed è arrivato nel 2022 all’astronomica cifra di 8.932 miliardi, con un aumento del 1000% rispetto a prima della crisi. Queste manovre sono state chiamate non convenzionali, con un certo pudore. Avrebbero dovuto chiamarsi disperate secondo la dottrina tradizionale. Lo stesso è accaduto con la Bce il cui bilancio è triplicato. Ma l’inedita pioggia di dollari e di euro, come di altre monete, non ha sortito l’effetto desiderato. La crescita economica è stata modesta e uno si può chiedere dove siano finiti i soldi pompati dal debito degli stati e dalle politiche ultra espansive delle banche centrali di tutto il mondo.

Si tratta di una specie di mistero economico che in tutto o in parte può essere risolto guardando a quello che è successo in borsa. L’indice dei titoli industriali della borsa di New York valeva appena 6.626 punti nel 2018 e ora è passato a 32.803 punti, con un aumento del 500%. Che la politica monetaria, soprattutto, abbia gonfiato il prezzo dei titoli? La finanza di borsa non ha mai avuto un periodo più roseo dopo il 2008 grazie alle risorse pubbliche e alle banche centrali.

Le due crisi del ‘29 e del 2008 hanno cambiato il capitalismo. Quella del ‘29 in meglio per la società, quella del 2008 in peggio. Nel ‘29 lo spirito del capitalismo è stato imbrigliato da regole che ne hanno mitigato gli aspetti distruttivi per decenni. Questa lezione è stata dimenticata e si è cercato dopo il 2008 di aggirare il problema di fondo, l’instabilità del capitalismo, con il debito pubblico e stampando moneta. Nel breve periodo la cosa è riuscita, ma ora se ne vedono i difetti: bassa crescita e diseguaglianza nei redditi.

Non è mai troppo tardi per mettersi al lavoro e rimettere le cose a posto, magari tassando seriamente le multinazionali e i guadagni di borsa, anche per riportare i debiti statali alle loro dimensioni naturali. Un capitalismo lungimirante e non predatorio è possibile, ma avremmo bisogno di una classe dirigente internazionale di tempra morale ben differente, non certamente quella raccolta nei lussuosi forum di Davos o Cernobbio.

16/09/2024

da Il Fatto Quotidiano

Mario Pomini

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