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Lemkin Institute nel mirino di Trump: l’offensiva USA contro chi denuncia i crimini di Israele

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Politica estera

30/10/2025

da La Notizia

di Giulio Cavalli

Vietato parlare di genocidio, la crociata di Trump non risparmia neppure le parole. Dopo Albanese e i giudici della Corte penale internazionale, l’amministrazione Trump punta il Lemkin Institute: vietato parlare di genocidio.

ll 6 febbraio 2025, con l’ordine esecutivo 14203, Donald Trump ha inaugurato una stagione nuova e pericolosa: dichiarare «minaccia alla sicurezza nazionale» ogni tentativo della Corte penale internazionale di indagare cittadini statunitensi o israeliani. È la formula che consente di colpire chiunque trasformi Gaza in un fatto giuridico.

A giugno sono stati sanzionati quattro giudici della Corte dell’Aia, a luglio la relatrice speciale Onu Francesca Albanese, accusata di «lawfare» contro Israele, in agosto un nuovo pacchetto ha colpito procuratori e giuristi. Le organizzazioni per i diritti umani parlano di attacco senza precedenti all’indipendenza della giustizia internazionale. Intorno a Washington nasce un lessico nuovo: anti-lawfare strategy. Applicare la Convenzione sul genocidio diventa un gesto sospetto, e difendere il diritto universale a essere giudicati secondo la legge appare come un atto ostile.

Dal tribunale ai testimoni: il caso Lemkin

Nel mirino ora c’è il Lemkin Institute for Genocide Prevention, fra i primi a qualificare come genocidio le condotte israeliane a Gaza. Il 14 ottobre 2025 l’istituto ha denunciato una campagna di delegittimazione partita da un editoriale di Fox News che lo accusava di «sostenere Hamas». Da allora le minacce si sono moltiplicate, insieme ai tentativi di de-platforming e alle pressioni sui donatori.

Non esistono ancora provvedimenti ufficiali, ma il segnale politico è chiaro: chi applica il linguaggio del diritto internazionale rischia di essere trattato come un nemico. Alcuni familiari di Raphael Lemkin, il giurista che coniò il termine “genocidio”, hanno avviato un’azione legale per impedirne l’uso del nome, sostenendo una “distorsione della memoria”. Intanto il Dipartimento di Stato ha annunciato che anche le ONG straniere «direttamente impegnate» nel “targeting illegittimo di Israele” potranno essere sanzionate. Nessun elenco, nessun decreto: basta l’annuncio a produrre un effetto gelo tra università, centri di ricerca e fondazioni.

L’istituto, nato per monitorare i segnali di genocidio nel mondo, vede oggi sospesi alcuni finanziamenti privati. Le sue pagine sono state oscurate per ore da attacchi informatici. Un mese fa la direttrice Sara Cobb ha parlato di «clima d’intimidazione senza precedenti». E chi lavora a Washington lo conferma: bastano una parola o un report per essere schedati come “filo-terroristi”. Nel frattempo cresce l’attenzione sulle liste sanzionatorie dell’OFAC e sulle note del Dipartimento di Stato: finché il nome non compare lì, la guerra è soprattutto reputazionale. Ma è proprio questa la leva che incide su inviti accademici, bandi, sponsorizzazioni. Università e think tank si cautelano: convegni rinviati, panel “ribilanciati”, abstracts accettati e poi respinti. È il chilling effect che trasforma la prudenza in autocensura.

Zittire la legalità internazionale

Nel suo ultimo rapporto alle Nazioni Unite, Francesca Albanese ha parlato di «pressione sistemica per silenziare la legalità internazionale». La catena è visibile: prima si colpiscono i giudici, poi i funzionari Onu, infine chi elabora gli strumenti giuridici. La forza non si limita più a violare il diritto: prova a ridefinirlo.

È il rovesciamento della promessa del diritto internazionale. Dove il diritto limitava la forza, ora la forza pretende di limitare il diritto. L’ordine esecutivo 14203 non punisce i crimini, punisce chi li nomina. E il caso del Lemkin Institute mostra che l’offensiva non si ferma ai tribunali, ma scende nel terreno più profondo: la costruzione del linguaggio giuridico.

A un anno dall’assedio di Gaza, l’America trumpiana allarga il perimetro del nemico: non più solo i combattenti, non più solo i giudici, anche i testimoni. La cartina di tornasole sarà se e quando il nome del Lemkin Institute entrerà in un atto amministrativo. Fino ad allora, l’obiettivo resta evidente: rendere costoso nominare i crimini. È qui che si misura la tenuta dell’idea di giustizia universale — nelle parole che resistono, nei luoghi che ancora le ospitano, nella responsabilità di chiamare le cose col loro nome.

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