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L’esibizione del crimine come arma

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COMMENTI

21/08/2025

da Il Manifesto

Chiara Cruciati

UN FUNERALE. Il governo approva il piano di colonizzazione E1 che spaccherà in due la Cisgiordania, isolerà Gerusalemme e metterà il chiodo sulla bara di uno Stato palestinese nei confini del 1967. I puntini si uniscono e danno forma al sistema di dominio che Israele persegue e che ha saputo raccontare sapientemente.

Si uniscono i puntini del progetto israeliano di conquista. Il governo approva il piano di colonizzazione E1 che spaccherà in due la Cisgiordania, isolerà Gerusalemme e metterà il chiodo sulla bara di uno Stato palestinese nei confini del 1967. L’esercito annuncia l’avvio dell’operaOvvero l’occupazione “stivali a terra” di Gaza City e dei campi profughi del nord. Gli Stati uniti sanzionano giudici e procuratori della Corte penale internazionale, “colpevoli” del tentativo di arginare legalmente il genocidio e l’occupazione militare.

I puntini si uniscono e danno forma al sistema di dominio che Israele persegue e che ha saputo raccontare sapientemente. Fin dalla sua nascita ha investito molto nella propria immagine, raccontandosi con toni leggendari e mitici (il piccolo Davide che sconfiggeva il Golia arabo, la Terra promessa che si faceva reale, la mano che aveva tramutato il deserto in giardino) e negando per decenni le radici della sua fondazione, la pulizia etnica dell’80% della popolazione palestinese che fino al 1948 abitava quelle terre. Si è raccontato come democrazia occidentale inviando un doppio messaggio: ai propri «simili», Europa e Stati uniti, e ai propri nemici, i palestinesi e la regione mediorientale.

Il 7 ottobre 2023 ha cambiato i termini del discorso solo in parte. È vero però che abbiamo assistito a un disvelamento, sia individuale che istituzionale: dai soldati di stanza a Gaza che pubblicano fieri sui social gli orrori commessi ai vertici politici e militari che pubblicamente invocano e praticano una seconda Nakba. È uno dei due ruscelli della narrazione che alimentano lo stesso fiume.

L’altro ruscello è quello di cui (di nuovo pochi giorni fa) ha parlato Netanyahu, «l’enorme budget, centinaia di migliaia di shekel, per strumenti di propaganda» in mano al ministero degli esteri. Esiste da decenni. Da ventidue mesi Israele è impegnato, direttamente o indirettamente, a definire fake news ogni immagine e notizia in arrivo da Gaza: la fame non esiste, i morti di stenti soffrivano di altre patologie, gli aiuti ci sono ma è l’Onu a farli marcire, ospedali e scuole sono centri militari di Hamas, i giornalisti sono combattenti camuffati dietro i giubbotti «Press».

Da una parte la controinformazione da indirizzare all’opinione pubblica internazionale, dall’altra la rivendicazione dei crimini commessi perché siano da monito per i nemici e da incoraggiamento per i propri cittadini. A questo serve quel sistema comunicativo: a dire agli israeliani che il governo veglia su di loro con il pugno di ferro e ai palestinesi che saranno ridotti in poltiglie. In entrambi i casi la fonte del messaggio è identica: il dominio assoluto, la supremazia sul nemico selvaggio che non merita che distruzione per permettere alla Grande Israele di risplendere e allargarsi senza limiti.

C’è questo nelle foto del ministro delle finanze Bezalel Smotrich che si fa ritrarre di fronte alla mega colonia di Ma’ale Adumim con in mano una mappa del progetto E1. E c’è nei due ultimi video resi pubblici dal ministero della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, girati in un carcere israeliano, uno di quelli che negli ultimi sessanta anni ha inghiottito oltre un milione di palestinesi e negli ultimi 22 mesi quasi ventimila.

Non bastava quello in cui minaccia Marwan Barghouti, storico leader palestinese che, dopo quasi due anni di isolamento totale, appare stremato, dimagrito di decine di chili, le manette ai polsi. Il secondo è stato pubblicato ieri sul canale Telegram di Ben Gvir: in piedi lungo uno dei corridoi del carcere, indica tronfio dei pannelli con sopra stampate foto di Gaza ridotta in briciole, quartieri che sono cumuli irriconoscibili di macerie. Spiega: «Questo è quello che (i prigionieri palestinesi) vedono al mattino quando escono per l’ora d’aria. È quello che vedono. E uno di loro, mi pare qui, ha riconosciuto la sua casa».

A chi sta parlando Itamar Ben Gvir con la sua comunicazione dell’orrore e del dominio? Parla agli israeliani, gli sta dicendo che l’umiliazione è parte della vittoria schiacciante da infliggere all’«altro». E parla ai palestinesi, gli sta dicendo che il loro leader più carismatico non è che l’ombra di se stesso, che sono soli e senza speranza e che l’unico orizzonte possibile è l’annientamento. Si è superato un altro livello, in apparenza soltanto comunicativo ma che è profondamente politico e morale.

Ben Gvir vuole raccontare la potenza di Israele ma ne mostra solo l’abisso. Insieme alla dignità dei prigionieri tutti, che siano detenuti nelle carceri o rinchiusi a Gaza e in Cisgiordania.

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