09/12/2025
da Il Manifesto
Lo stato dell’Unione Trump ha in qualche modo isolato l’Europa, Putin è diventato un alleato di Washington mentre Zelensky (in Italia dopo il vertice di ieri con i volenterosi) è oltre modo sotto pressione. Cosa gli racconta oggi al presidente ucraino la nostra premier, ambiziosa “pontiera” con Trump: che lo aiutiamo comunque ma deve accettare il piano del presidente americano?
«La Russia è isolata», era il mantra fino a poco tempo fa dei sostenitori della sanguinosa guerra difensiva a oltranza dell’Ucraina contro la Russia. Quando dalle colonne di queste giornale si faceva notare che potenze come Cina e India erano al fianco di Mosca e che la Russia, oltre a essere nei Brics, è membro anche dell’Opec allargata con gli stati del Golfo, si veniva liquidati come «disfattisti». Oggi se l’Europa balla da sola non per colpa di fantomatiche “quinte colonne” evocate da pallidi cantori della politica estera ma per valutazioni errate mentre il documento strategico americano, che ne preconizza l’agonia, è un peana ai sovranisti della destra più radicale (vedi Francesco Strazzari sul manifesto di domenica).
Adesso Trump ha in qualche modo isolato l’Europa, Putin è diventato un alleato di Washington mentre Zelensky (in Italia dopo il vertice di ieri con i volenterosi) è oltre modo sotto pressione. Cosa gli racconta oggi al presidente ucraino la nostra premier, ambiziosa “pontiera” con Trump: che lo aiutiamo comunque ma deve accettare il piano del presidente americano? Imbarazzante. Anche perché se Trump – come adombrato dal figlio – si sfilasse dal negoziato, noi europei non saremmo in grado di fornire a Kiev gli asset sufficienti per l’intelligence satellitare e molto altro.
Il tutto era già nell’aria quando la scorsa settimana i due mediatori americani di ritorno dalla Russia hanno saltato l’appuntamento europeo con Zelensky e il segretario del dipartimento di Stato Marco Rubio – il più fedele alla tradizione atlantista repubblicana – non si è neppure presentato al vertice di Bruxelles dei ministri degli esteri della Nato. Ma già si intuiva nel vertice di Anchorage tra Putin e Trump: definito un fallimento dai media occidentali, in realtà aveva segnato il ritorno sul tappeto rosso della Russia come grande potenza (sia pure in subordine con la Cina).
Come mai siamo arrivati a questo punto? Tutto è avvenuto sopra le teste degli europei che si vantavano di avere capito tutto di Trump. Stando a una ricostruzione del Wall Street Journal. «A ottobre tre importanti uomini d’affari – due statunitensi e un russo – si sono messi al lavoro su un computer. In una lussuosa villa di Miami hanno elaborato un piano per mettere fine alla guerra della Russia contro l’Ucraina». Comincia così l’inchiesta del Wall Street Journal sull’iniziativa diplomatica lanciata dalla Casa Bianca per risolvere la crisi ucraina.
Ma i loro veri obiettivi erano anche altri, avverte il giornale finanziario Usa. I tre hanno tracciato una strada per riallacciare i rapporti con l’economia russa e garantire la distribuzione degli utili alle aziende americane rispetto a quelle europee. Nella sua villa sul mare, l’immobiliarista miliardario Steve Witkoff, inviato speciale di Washington, ha ospitato Kirill Dmitriev, capo del fondo sovrano russo e negoziatore di Putin, il vero autore del documento. Il terzo uomo è Jared Kushner, genero del tycoon. Mentre Trump si preparava ad allentare le sanzioni alla Lukoil, Dmitriev ha spinto e ottenuto un piano che consentirà alle aziende statunitensi di attingere ai 300 miliardi di dollari di beni russi congelati in Europa per finanziare progetti d’investimento congiunti russo-americani e la ricostruzione dell’Ucraina, affidata agli Stati Uniti.
Gli europei da questo piano, se attuato, escono cornuti e mazziati, pur essendo l’Europa il maggiore mercato Usa e il maggiore acquirente del debito americano. Perché era proprio con i soldi russi congelati in Europa che la Ue – dove parecchi stati si sono mobilitati con un documento presentato ieri – pensava di finanziare Kiev e la ricostruzione dell’Ucraina. Dimenticando il dettaglio che lo stesso Zelensky aveva affidato la supervisione della ricostruzione alla Blackrock che poi ha abbandonato il campo quando ha capito che, dopo l’elezione di Trump, tutto sarebbe passato alla Casa Bianca. Quando ci sono di mezzo gli affari Trump non fa prigionieri. Loro, le oligarchie Usa, lo sanno.
Ma qui viene il punto più interessante. Come scrive il giornale americano, i colloqui di Miami sono stati l’apice di una strategia per aggirare il tradizionale apparato di sicurezza Usa e convincere l’amministrazione a considerare la Russia non come una minaccia militare, ma come «una terra di opportunità». Witkoff e Dmitriev condividono l’approccio alla geopolitica di Trump: «Gli affari contano più dei confini». Breve notazione: solo Israele può permettersi di fare come vuole, visto che la “linea gialla” di Gaza, con cui Tel Aviv ha inglobato il 53% di Gaza, è un nuovo confine, secondo quanto appena annunciato dal capo di stato maggiore israeliano Zamir.
D’altra parte per la Casa Bianca mescolare affari e geopolitica è la prassi e gli investitori americani sono da sempre considerati i “garanti commerciali della pace”. Il risultato di queste manovre è il piano in 28 punti, poi ridotti a 19, presentato da Trump criticato da Europa e Ucraina, e attualmente oggetto dei negoziati tra Washington, Kiev e Mosca.
L’aspetto più interessante è che per ora Trump sembra poter fare quello che vuole. Anche essere tentato dal liquidare la Nato. Magari Trump ce la vende in un Black Friday a prezzo scontato (dipende se include basi Usa e bombe atomiche). Il ministro della Difesa Crosetto, imprenditore che fiuta l’affare, vorrebbe farne uno strumento militare globale al posto dell’Onu, per altro umiliata proprio dalla Nato.
Peccato, poi, che gli europei non avendo mai varato una politica estera e di difesa comune in questi decenni si sono sdraiati sul divano dell’Alleanza, seguendola in Afghanistan e nell’export delle cosiddette guerre “umanitarie”, lontano dall’Europa dove era già in atto l’espansione a Est e l’accerchiamento di Mosca. Quando nel ’99 la Nato sbarca in Kosovo questo era il punto più a Est dove erano arrivate le truppe occidentali dopo la seconda guerra mondiale, Mosca reagì mandando da Sarajevo un battaglione a Pristina, la segretario di stato Albright di notte chiese al comandante delle truppe, il generale britannico Mike Jackson, di inviare i paracadutisti. «Non voglio far scoppiare la terza guerra mondiale», replicò seccato Jackson con la sua voce cavernosa. Anche lui era una delle “quinte colonne” evocate dai nostri pallidi cantori?

