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L’Europa sull’orlo di un blackout geopolitico

L’Europa sull’orlo di un blackout geopolitico

Economia

09/11/2025

da Pressenza

Mauricio Herrera Kahn

L’Europa è entrata in una fase di fragilità energetica che non è più temporanea ma strutturale. La sua narrativa di potenza globale sta crollando sotto il peso di una realtà brutale: dipende dalle decisioni esterne per mantenere accese le proprie luci. Decenni di dipendenza dall’energia altrui –gas russo a basso costo, energia nucleare francese ormai obsoleta, petrolio arabo a determinate condizioni ed energie rinnovabili ancora insufficienti– hanno prodotto una tempesta perfetta. Non si tratta solo di prezzi o inflazione. Si tratta di una perdita strategica di sovranità. Per la prima volta dal dopoguerra, l’Europa non è padrona del proprio destino energetico. Reagisce, non decide. E il rischio non è un blackout tecnico, ma geopolitico.

“L’energia non è più solo una risorsa. Oggi è un’arma e l’Europa non ha più il dito sul grilletto.”

L’Europa entra in una fase di aperta vulnerabilità energetica

Prima della guerra in Ucraina, l’Europa consumava oltre 155 miliardi di metri cubi di gas russo all’anno, pari al 45% del suo approvvigionamento totale di gas. Nel 2024, tale cifra è scesa a meno di 25 miliardi, non perché l’Europa non ne avesse più bisogno, ma perché è stata costretta a sostituirlo, pagando tre volte di più per il gas naturale liquefatto (GNL) statunitense a oltre 50 dollari per MWh, rispetto ai 15 dollari pagati per il gas russo trasportato tramite gasdotto. Non si è trattato di un aggiustamento economico, ma di un crollo strategico istantaneo. Senza una propria energia, il continente ha scoperto che la sua autonomia era un miraggio sostenuto dalla geografia, non dalla sovranità.

La Francia ricava il 63% della sua energia elettrica dal nucleare, ma nel 2023, 28 dei suoi 56 reattori hanno segnalato corrosione o crepe nei sistemi critici. La Germania, dopo aver chiuso le sue ultime centrali nucleari, è rimasta esposta, costretta a importare energia durante le emergenze. La domanda industriale europea di gas non è diminuita, ma si è semplicemente trasferita altrove. Tra il 2023 e il 2025, oltre 90 miliardi di dollari di industrie chimiche, siderurgiche e di fertilizzanti sono migrati o stanno migrando verso gli Stati Uniti e l’Asia per ragioni puramente legate all’energia  (si veda anche DigitalJournal – France & questions about uranium dependence).

Il colpo simbolico è stato il ritorno al carbone. Nel 2023 l’Europa ha bruciato il 30% di carbone in più rispetto al 2020, riattivando impianti che erano stati chiusi in pompa magna. La sola Germania ha aumentato il proprio consumo di carbone di ulteriori 11 milioni di tonnellate. Il continente che si presentava come leader nella lotta al cambiamento climatico è diventato improvvisamente ostaggio dell’energia. Non si tratta di un problema tecnico temporaneo. È l’inizio del blackout geopolitico dell’Europa.

La Germania sull’orlo del baratro: la fabbrica del mondo perde potere

Prima dell’interruzione delle forniture di gas russo, il 55% dell’energia industriale tedesca proveniva direttamente dal gas naturale, con un costo medio di 12 dollari per MWh. Oggi, lo stesso input supera i 38 dollari per MWh anche con i sussidi statali, e nel 2022 i prezzi spot hanno raggiunto un picco di 300 dollari, costringendo all’arresto di intere linee di produzione. Il risultato è stato immediato: BASF ha annunciato la chiusura progressiva del suo stabilimento di Ludwigshafen (19.000 posti di lavoro diretti) e ha dirottato 10 miliardi di dollari di investimenti verso la Cina.

L’industria automobilistica, che rappresenta il 13% del PIL tedesco e oltre 800.000 posti di lavoro diretti, sta operando al limite della redditività. Nel settembre 2024 Volkswagen ha pubblicamente riconosciuto che produrre un veicolo elettrico in Cina costa il 35% in meno rispetto alla Germania. Mercedes e BMW stanno valutando la possibilità di trasferire parte della loro catena di fornitura negli Stati Uniti, dove Washington offre sussidi IRA (sussidi riservati alla produzione USA di tecnologie verdi) fino a 7.500 dollari per ogni veicolo elettrico prodotto.

L’idrogeno verde, propagandato come soluzione strategica, ha incontrato difficoltà nella fase iniziale. Attualmente, produrre un chilo di idrogeno in Germania costa in media tra i 6 e gli 8 dollari, mentre in Arabia Saudita e Cile il costo previsto per il 2026 è compreso tra 1,2 e 2,5 dollari. Cina e India producono già acciaio e batterie con energia meno costosa. La Germania, che per mezzo secolo è stata la fabbrica del pianeta, ora paga più per la propria energia di quanto guadagni dalle esportazioni. Il deficit silenzioso è già iniziato.

Francia, Italia, Spagna: un modello energetico frammentato e non coordinato

La Francia continua a vantarsi delle sue capacità nucleari, ma la realtà è critica. Il 63% della sua elettricità proviene da 56 reattori, 28 dei quali hanno dovuto essere fermati o limitati nel 2023 a causa di corrosione e cedimenti strutturali. Il suo nuovo reattore di punta a Flamanville, inizialmente preventivato in 4 miliardi di dollari, ha visto i costi lievitare a più di 15 miliardi di dollari e ora è in ritardo di oltre un decennio rispetto al programma, ancora senza una data certa di entrata in funzione. L’energia nucleare francese, che un tempo esportava oltre 50 TWh all’anno, ha finito per importare energia dalla Germania e dalla Spagna in pieno inverno.

L’Italia vive in una situazione di pura dipendenza. Il 95% del suo gas è importato e, dopo aver rotto con la Russia, ora dipende fortemente dall’Algeria e dall’Azerbaigian. Nel 2024 ha firmato contratti per 13 miliardi di dollari con la Sonatrach algerina, ma le infrastrutture sono instabili e soggette alle pressioni politiche del Nord Africa. Roma non controlla né il prezzo né il flusso. È energeticamente in ostaggio.

La Spagna è il caso più contraddittorio. Nel 2024 è diventata il secondo esportatore di elettricità in tutta Europa, grazie alla sua rete elettrica rinnovabile al 46%. Ha esportato oltre 20 TWh in Francia, importando contemporaneamente oltre 60 miliardi di dollari in prodotti industriali fabbricati con energia a basso costo al di fuori del continente. Ha energia, ma non la trasforma.

L’Europa non è solo frammentata dal punto di vista strategico, ma è anche divisa da disuguaglianze energetiche interne (per comprendere questo “assurdo strutturale”, si veda anche: “France is effectively throttling down Spain and Portugal’s energy flow and connection to wider Europe  e  “France’s Macron opposes building new Iberia gas pipeline”, “INSTITUTE OF ENERGY FOR SOUTH-EAST EUROPE”).

Russia, Qatar, Algeria e Arabia Saudita prendono il controllo del flusso energetico

La Russia ha perso clienti in Europa, ma non il potere. Ha reindirizzato oltre 80 miliardi di metri cubi di gas verso Cina, India e Turchia e ha firmato con Pechino l’accordo per il gasdotto Power of Siberia II, garantendosi oltre 400 miliardi di dollari di vendite in 30 anni. Putin deve solo aprire le valvole, non inviare carri armati: il gas è ormai un’arma di guerra. Nel 2022, ridurre il flusso del Nord Stream del 70% è stato sufficiente per portare l’inflazione energetica europea al massimo livello degli ultimi 40 anni. Non si è trattato di un attacco militare, ma di un promemoria della dipendenza.

Il Qatar, proprietario del 20% delle riserve mondiali di gas, ha deciso di raddoppiare la sua produzione di GNL (gas naturale liquefatto) e ha già firmato contratti della durata di 27 anni con Francia, Germania e Cina. Nessuno potrà sostituirlo prima del 2030. L’Arabia Saudita controlla 11 milioni di barili al giorno e opera insieme alla Russia in un’OPEC+ che non risponde più a Washington. Nel 2023, hanno ignorato le pressioni della Casa Bianca e hanno tagliato 1,3 milioni di barili al giorno per mantenere i prezzi del greggio sopra gli 85 dollari.

L’Algeria sta emergendo come attore chiave nel Mediterraneo. Nel 2024 ha firmato contratti per 13 miliardi di dollari con l’Italia e un accordo strategico con la Germania  per esportare idrogeno verde a partire dal 2027. Ma l’Algeria risponde alla propria logica, non a quella di Bruxelles. Oggi quattro capitali – Mosca, Doha, Riyadh e Algeri – possono destabilizzare l’Europa senza lanciare un solo missile. L’energia non è più solo in vendita. È uno strumento di strategia politica.

Gli Stati Uniti come fornitore imperiale: imporre all’Europa una bolletta energetica insostenibile

Il business energetico degli Stati Uniti con l’Europa non è commerciale. È geopolitico. Nel 2021, l’Europa ha pagato in media 15 dollari per MWh per il gas russo proveniente dal Nord Stream. Nel 2023, ha pagato oltre 50 dollari per MWh per il gas naturale liquefatto (GNL) statunitense. Durante i momenti di panico, il prezzo spot ha superato i 300 dollari per MWh. La differenza non era marginale; era una tassa imposta dalla guerra energetica.

Solo nel 2023, le esportazioni di GNL dagli Stati Uniti verso l’Europa hanno superato i 60 miliardi di dollari, con aziende come Cheniere Energy che hanno moltiplicato i loro profitti. Washington è diventata silenziosamente il principale fornitore di gas del continente, sostituendo Mosca. Ma questa sostituzione ha delle conseguenze.

Le industrie europee pagano fino a quattro volte di più per l’energia rispetto ai loro concorrenti statunitensi, provocando un massiccio esodo di investimenti industriali verso il Texas e la Louisiana, dove l’elettricità costa 30 dollari per MWh rispetto ai 90 dollari della Germania.

La Casa Bianca non sta solo vendendo energia. Sta vendendo una subordinazione strategica. Ogni nave metaniera che arriva in Europa è la prova che il continente ha perso la capacità di negoziare da una posizione di autonomia. Il costo non si misura in euro, ma in obbedienza strutturale. L’Europa non importa più solo energia. Importa dipendenza.

Il colpo di Stato silenzioso: la Cina acquista energia a basso costo e vende prodotti costosi all’Europa

La Cina paga attualmente i prezzi energetici più bassi del sistema globale. Importa gas russo tramite gasdotto a meno di 10 dollari per MWh, mentre l’Europa paga tra i 50 e i 90 dollari. L’accordo strategico del 2024 tra Gazprom e CNPC garantisce a Pechino oltre 98 miliardi di metri cubi di gas all’anno a prezzi preferenziali per tre decenni. Allo stesso tempo, la Cina riceve petrolio saudita con sconti fino a 5 dollari al barile attraverso contratti diretti, aggirando il dollaro. Il risultato è che l’energia per la produzione in Cina costa fino a quattro volte meno che in Europa.

Grazie a questo vantaggio, la Cina sta inondando il mercato europeo di veicoli elettrici, batterie, acciaio verde e macchinari industriali. Nel 2024, le esportazioni cinesi verso l’Europa hanno superato i 660 miliardi di dollari, mentre l’Europa ha esportato meno di 260 miliardi di dollari verso la Cina. Il divario si allarga di mese in mese. La cosa più grave è che l’Europa sta sovvenzionando la propria sconfitta. I governi europei forniscono miliardi di sussidi alle loro industrie per aiutarle a sopravvivere agli alti costi energetici… e queste stesse industrie acquistano materie prime, macchinari e tecnologia prodotti in Asia con energia a basso costo.

La Cina non ha bisogno di giocare a braccio di ferro. Basta un freddo calcolo. Compra energia a basso costo e vende prodotti costosi. Il divario diventa potere imperiale. E l’Europa, senza rendersene conto, sta finanziando l’ascesa strategica del suo più grande concorrente.

L’Europa perderà il Secolo dell’Energia se non romperà la sua Obbedienza Atlantica

Se l’Europa manterrà la sua attuale dipendenza, arriverà al 2030 pagando da due a quattro volte di più per il gas e l’elettricità rispetto ai suoi concorrenti asiatici. Con prezzi all’ingrosso costantemente superiori a 70 dollari per MWh, le industrie ad alto consumo energetico perderanno strutturalmente il loro margine.

Il risultato è oggi misurabile e proiettabile in scala. Tra il 2026 e il 2030, l’UE potrebbe perdere fino a 1,5 punti percentuali di PIL all’anno a causa della fuga di investimenti e del calo della produttività. La bilancia commerciale industriale con la Cina supera già i 400 miliardi di dollari all’anno e potrebbe raggiungere i 600 miliardi di dollari entro il 2030 se il divario energetico non verrà colmato.

In questo scenario, la capacità di raffinazione europea si ridurrebbe del 15%, la produzione primaria di acciaio subirebbe una contrazione di 15-20 milioni di tonnellate e l’industria chimica pesante trasferirebbe oltre 120 miliardi di dollari di spese in conto capitale in Asia e negli Stati Uniti tra il 2026 e il 2035. La dipendenza assoluta non è una metafora. Si tratta di un deficit continuativo della bilancia dei pagamenti prodotto da debiti costosi e da un aumento della disoccupazione industriale.

Esiste una strada alternativa. Richiede una rottura strategica con l’obbedienza atlantica in materia energetica e finanziaria. L’Europa dovrebbe garantirsi contratti diretti, non in dollari, per la fornitura di gas e petrolio con fornitori diversificati e fissare un tetto massimo interno per l’industria compreso tra 40 e 50 dollari per MWh durante la transizione. Parallelamente, deve accelerare la creazione di una rete energetica verde su scala reale e completare le catene di approvvigionamento locali.

Ciò deve essere sostenuto da interconnessioni elettriche che aumentino la capacità transnazionale del 30% entro il 2030 per trasferire le eccedenze di energia solare dal sud al cuore industriale, e da quadri normativi locali per ancorare la produzione di pannelli, turbine, elettrolizzatori e batterie sul suolo europeo, sostenuti da incentivi pari a 50 miliardi di dollari all’anno per cinque anni. Il rinnovamento verde della civiltà non è uno slogan. È un bilancio di previsione e una politica industriale.

Il bivio del 2030-2035 è netto. Con l’obbedienza atlantica e l’energia costosa, la disoccupazione industriale europea potrebbe superare i 15 milioni di posti di lavoro nel corso del decennio e la quota del PIL rappresentata dal settore manifatturiero potrebbe scendere al di sotto del 12%. Con la sovranità energetica e una politica verde ben finanziata, l’Europa potrebbe sostenere costi energetici industriali compresi tra 45 e 55 dollari per MWh e recuperare 1,5 punti percentuali di produttività annuale a partire dal 2031. Non si tratta di scegliere un colore politico. Si tratta di scegliere chi fissa il prezzo dell’elettricità che alimenta una fabbrica. Un percorso definisce il secolo per l’Europa. L’altro dichiara la resa.

Uno specchio globale: La sovranità energetica è la battaglia comune dell’Europa e delle Americhe

L’Europa non si trova davanti a un rischio, ma a una decisione. Il blackout non sarà tecnico, ma politico. Le luci non si spengono nei cavi, ma nei centri di potere che rinunciano al diritto di decidere. Se rimarrà subordinata ai prezzi fissati a Washington, Riyadh o Pechino, diventerà un mercato premium di consumatori indebitati, non una potenza. Tale destino è già iniziato, solo che non suona alcuna sirena d’allarme. Arriva con fabbriche silenziose, importazioni record e una generazione più giovane che guarda più a Shanghai che a Bruxelles.

questo non è solo un problema dell’Europa. Le stesse sfide fondamentali dell’aumento vertiginoso dei consumi, delle reti ad alta tensione inadeguate e del disperato bisogno di sistemi di risposta intelligenti e automatizzati assillano l’intero emisfero occidentale. Dal Nord al Sud America, le reti sono sotto pressione. C’è un urgente bisogno di sistemi in tempo reale in grado di localizzare dinamicamente l’energia disponibile, ridurre il carico durante i picchi o segnalare alle centrali a gas, alle dighe idroelettriche e ai parchi eolici di limitare la produzione quando supera ciò che può essere consumato o immagazzinato, ad esempio utilizzando i laghi dei bacini superiori nei sistemi di pompaggio idroelettrico come batterie su scala continentale.

Il problema fondamentale è identico ovunque: la mancanza di sovranità su un ecosistema energetico complesso e fragile. Ma il futuro non è ancora chiuso. L’Europa, e in effetti anche le Americhe, possiedono ancora il capitale umano, le infrastrutture e la legittimità storica per lanciare una seconda rivoluzione industriale verde e sovrana, se decidono di rompere con l’obbedienza automatica. Installare energie rinnovabili non è sufficiente. È essenziale controllare il prezzo, la tecnologia e la catena de valore. L’energia non è una merce. È il terreno invisibile su cui cammina una civiltà. E nessuno può guidare la propria storia se cammina sulla terra di qualcun altro.

L’opportunità di scegliere rimane, ma il tempo a disposizione non si misura più in decenni. Si misura in anni.

Bibliografia:

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