20/10/2025
da Remocontro
Il 4 marzo 1848 Carlo Alberto, re di Sardegna, concesse ai suoi fedeli sudditi lo Statuto. In ottantaquattro articoli erano ridefiniti lo Stato sabaudo e i suoi poteri: tra i diversi diritti graziosamente elargiti dal sovrano c’era anche la libertà di stampa. Sulle eventuali impertinenze dei giornalisti vegliavano però i regi prefetti e i solerti delegati di pubblica sicurezza che potevano sequestrare le edizioni dei quotidiani o altri periodici senza disturbare alcun giudice. Quando questi mezzi non erano sufficienti ce n’erano anche altri …
Caro Sigfrido, cerchiamo di essere originali nel coro delle solidarietà. Ennio
Il bastone del Re e altre antiche storie di libertà di stampa
Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia dal 1861, di fatto regnò da tre capitali. Lasciata definitivamente Torino nel 1865 – secolare culla della dinastia –, tra l’altro provocando gravi disordini nel settembre 1864, la capitale del regno divenne Firenze e di conseguenza sede dei ministeri e del parlamento. Nemmeno l’ingresso del re nella città toscana fu però del tutto tranquillo: la giornalista inglese Jessie White, compagna del garibaldino Alberto Mario, all’apparire della carrozza reale profferì ad alta voce «Traditore!» accusando il re di non aver ancora portato la capitale a Roma. Fermata e severamente ammonita, continuò però a criticare la politica di casa Savoia e della nuova classe dirigente che ormai si poteva definire post-risorgimentale.
La vita politica nella nuova capitale comunque fu breve, ma non monotona, sia per gli avvenimenti esterni come la deludente Terza guerra d’indipendenza o l’impresa garibaldina di Mentana, sia per le tensioni politiche nel dibatitto interno alla formazione del nuovo stato: infatti, poiché le guerre del Risorgimento avevano dissestato le casse, le controversie più accese si ebbero nel campo dell’amministrazione finanziaria.
Un deputato veneto ex garibaldino e giornalista, Cristiano Lobbia, denunciò senza mezzi termini diversi casi di corruzione nella concessione di nuove licenze per i Monopoli di Stato: Lobbia, non solo smascherò un collega giornalista (anche lui ex garibaldino) che aveva invece ricevuto delle somme per insabbiare la vicenda, ma fu vittima egli stesso di una misteriosa aggressione nel corso della quale fu colpito da varie coltellate. Il processo però ribaltò la situazione: non solo non furono individuati i responsabili, ma la vittima fu condannata ‘per simulazione di reato’.
Il bastone del Re
Oggetto di critiche non solo politiche fu anche la figura del re Vittorio Emanuele II e in particolare per la sua convivenza con Rosa Vercellana, meglio conosciuta come la ‘bela Rosin’. Il giovane principe aveva incontrato Rosa ancora fanciulla nel 1847 e se ne era ‘invaghito senza limiti’: nonostante le pressioni del rigido e cattolicissimo padre Carlo Alberto, dei dignitari di tutta la corte sabauda, di Cavour e di altri ministri, di generali e ammiragli, Vittorio Emanuele continuò fino alla morte a condurre una vita parallela e privata.
Rosa infatti da Torino si trasferì a Firenze e poi a Roma, continuando il rapporto nascosto con il re e nello stesso tempo diventato ormai di pubblico dominio: un fatto che provocava a volte pesanti allusioni, reprimende e continue solenni smentite, ma non cessava mai.
Rimasto vedovo nel 1855 Vittorio Emanuele continuò la relazione da cui nacquero due figli, Vittoria ed Emanuele Alberto: Rosina divenne contessa di Mirafiori nel 1858 e il re la sposò religiosamente nel 1869, un anno prima presa di Roma, benchè fosse esclusa dalla possibilità di un’ascesa al trono.
- Quando dopo la morte del re, furono sgomberate le stanze che soleva occupare in una residenza in Piemonte fu trovato un involto sigillato che conteneva un bastone da passeggio spezzato e un biglietto autografo del compianto ‘padre della Patria’: «Bastone rotto sulla schiena del giornalista X Y, che aveva parlato male di Rosina».
Dalla bigamia alle ‘doppie serie’ delle banconote
L’unica donna che partecipò alla spedizione dei Mille fu probabilmente Rosalie Montmasson, cospiratrice per l’Unità d’Italia almeno dal 1849, anno in cui aveva conosciuto Francesco Crispi che aveva poi sposato a Malta nel 1854 condividendone il destino fino al ripudio. Nel 1878 il ministro ex garibaldino aveva sposato però Lina Barbagallo e ben presto dalla stampa – nonostante i frequenti sequestri – si levarono accuse di bigamia che ebbero un seguito in tribunale.
Al processo, che suscitò interesse in tutto il paese, Crispi fu però assolto in quanto non fu ritenuto valido l’atto di matrimonio registrato a Malta e seguirono altri sequestri e condanne di giornalisti. Il più noto scandalo dell’Italia di fine Ottocento fu tuttavia quello della Banca Romana e anche in questo caso la stampa giocò un ruolo importante.
La Banca Romana, diretta da Bernardo Tanlongo, avendo accumulato debiti consistenti a causa di investimenti rivelatisi fallimentari, aveva pensato di emettere ‘doppie serie’ di banconote con la scusa di sostituire quelle usurate, cosa che in realtà non avveniva. La gestazione dello scandalo fu lunga, perché prima furono condotte due ispezioni, ma ancora una volta si ebbe la divulgazione al pubblico di affari molto riservati attraverso il direttore di una testata settimanale che si occupava di economia e che per di più sosteneva da tempo la necessità di creare un unico istituto di emissione.
In una memorabile seduta del parlemento furono rivelati in dettaglio tutti gli intrighi della banca e si costituì una commissione d’inchiesta. Nel frattempo, in mezzo a crisi parlamentari e governative a raffica, aumentarono i sequestri dei quotidiani che cominciarono ben presto a contendersi il titolo di giornale ‘più sequestrato’.
- Caro Sigfrido, tra una bastonata regale e l’altra (statti accorto che quelli non usano solo il bastone da passeggio), volendo provocare un sorriso tra molte preoccupazioni, e rileggendo la storia che ci racconta Giovanni Punzo, a me sembra di intravvedere tanta della Nuova Rai. Triste vero? Abbraccio, Ennio