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L’Iraq delle due guerre americane? Vorrebbe crescere

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Politica estera

11/11/2025

da Remocontro

Remocontro

Le settime elezioni in Iraq da quando l’invasione degli Stati Uniti mise fine al regime di Saddam Hussein, nel 2003. Guerra contro armi di distruzione di massa che loro non avevano. Il paese vota per rinnovare il parlamento tra corruzione diffusa, divisioni etniche e religiose e la forte influenza dell’Iran. Il peso della politica estera e regionale nelle scelte interne: Usa, Iran e Turchia su tutti.

Un sistema democratico ancora fragile

«Più dei risultati conta la prova di un sistema democratico ancora fragile, molto corrotto e fortemente basato sulle identità etniche e religiose», avverte il manifesto. Ci si aspetta che votino in pochi, in un crescente clima di sfiducia verso la politica e per l’effetto di boicottaggi. E non ci sarà probabilmente un chiaro vincitore. L’ultima volta, nel 2021, servì oltre un anno per avere un governo: nel frattempo ci furono scontri e oltre 30 persone vennero uccise. E nonostante negli ultimi anni sia riuscito a non essere coinvolto direttamente nelle guerre in Medio Oriente, l’Iraq resta fortemente condizionato dal vicino Iran e di conseguenza al centro di attenzioni e pressioni anche da parte degli Stati Uniti, nemici dell’Iran.

La partita religiosa etnica tra sunniti e sciiti

La coalizione favorita lo schieramento sciita dell’attuale primo ministro Mohammed Shia al Sudani. Dal 2003 nessun primo ministro ha fatto due mandati, e anche se la coalizione il dovesse vincere è difficile che al Sudani venga confermato. Alcuni partiti della coalizione vogliono un nuovo leader, e gli Usa lo considerano troppo vicino alle potenti milizie filoiraniane che sono ancora presenti e assai influenti in Iraq, anche a livello politico. «Molte si sono presentate alle elezioni con una propria lista, tra cui Kataib Hezbollah, la più potente e considerata un’organizzazione terroristica dagli Stati Uniti».

Le Milizie più dell’esercito

Gran parte delle Milizie fu creata nel 2014 e riunite nelle ‘Forze di mobilitazione popolare’ per combattere l’ISIS. Sono state ufficialmente assorbite dall’esercito iracheno nel 2016, ma mantengono tuttora una larga autonomia e contatti stabili e diretti con il governo iraniano. Gli Stati Uniti chiedevano già al governo uscente di isolarle e di fatto smantellarle, ma non è successo: le milizie restano enormemente influenti nella società e nella politica irachene. A differenza di altri gruppi simili, come Hezbollah in Libano, negli ultimi due anni si sono tenute in gran parte fuori dai conflitti con Israele e sono rimaste forti nonostante le ridotte possibilità del regime iraniano, che invece è stato parecchio indebolito.

Opere pubbliche e futuro

  • In Iraq le infrastrutture sono carenti in molti ambiti, compreso quello energetico (i blackout sono frequenti), nonostante le enormi risorse di petrolio e gas. Durante il suo mandato il governo ha assunto oltre un milione di dipendenti pubblici, creando una rete clientelare e compromettendo le non floride finanze dello Stato. La corruzione è radicata e coinvolge tutti i livelli dell’amministrazione pubblica, mentre disoccupazione e povertà sono diffuse e sono oggi le questioni principali per gli elettori, anche più della sicurezza.

Il Movimento sadrista

Nel 2021 al Sudani divenne primo ministro anche se a vincere le elezioni fu il Movimento Sadrista, partito sciita rivale guidato da Muqtada al Sadr, noto e potente leader politico e religioso. Ottenne 73 seggi su 329 ma fu escluso dalle trattative di governo, ritirò la sua rappresentanza parlamentare e i suoi seguaci si scontrarono con le forze di sicurezza. A queste elezioni al Sadr si è schierato a favore del boicottaggio, mantenendo la sua posizione di distanza dall’attuale sistema politico, che reputa illegittimo. Resta però molto influente: un’affluenza bassa potrebbe essere vista come una sorta di sua vittoria e portare a nuove proteste.

Gli elettori, le etnie e il non voto

In Iraq i potenziali elettori sono 32 milioni, ma solo 21 milioni di persone si sono registrate per votare. Tre grandi gruppi su base etnica e religiosa: gli sciiti, minoritari nell’Islam ma molto presenti in Iraq; i sunniti e i curdi. Ci si attende che voti meno del 40 per cento di questi: sarebbe un dato peggiore anche del 41 per cento del 2021, l’affluenza più bassa di sempre finora. Il sistema sfavorisce i candidati indipendenti e tende a mantenere lo status quo, impedendo grandi sconvolgimenti. «Le elezioni non sono una questione di popolarità, ma dipendono da quanti soldi si spendono, da quanti voti si comprano». Oltre alle pratiche illegali ci sono le promesse di impieghi pubblici e di interventi nelle infrastrutture, come l’allacciamento di alcune aree alla rete idrica.

Le incognite geopolitiche: Iran, Usa e Turchia

Molto si giocherà infine sul fronte regionale e internazionale. L’Iraq è un crocevia tra l’influenza degli Stati Uniti e dell’Iran, nonché delle tensioni che attraversano il Medio Oriente. Il ruolo dell’Iran in Iraq sembra oggi ridimensionato. Anche gli Usa sembrano aver limitato la presenza militare, nonostante continuino a utilizzare sanzioni e negoziati per contenere il raggio d’azione delle milizie filo-iraniane. Il risultato è che la politica irachena vive in uno spazio ibrido, in cui i leader locali si muovono come mediatori fra pressioni esterne e aspettative interne. «In questo spazio le infrastrutture stanno diventando una nuova arena di potere: lo dimostrano la ferrovia Shalamcheh-Bassora, che collega l’Iran al Golfo, o la riapertura dell’oleodotto dal Kurdistan iracheno verso la Turchia, altro attore rilevante in Iraq specie per la questione curda», come rileva VaticanNews.

  • Elezioni strategiche per almeno quattro motivi. Per capire se l’Iraq riesce a muoversi verso una vera agenda nazionale. Poi, misurare il peso della politica estera e regionale nelle scelte interne. Infine, per vedere se emergono nuovi attori generazionali o indipendenti e, di riflesso, per valutare come verrà negoziata la formazione del governo: in Iraq, vincere le elezioni non significa automaticamente governare da soli.

 

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