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L’israeliano Hasad, fondatore di Crime Minister “Netanyahu è il vero pericolo per Israele”

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Politica estera

21/10/2025

da Left

Giuliana Vitali

L’attivista israeliano che guida la protesta contro il premier denuncia “un sistema corrotto che usa la polizia per intimidire i cittadini”. Dopo due anni di guerra e censura, Hasad avverte: “Netanyahu ha distrutto la fiducia nella democrazia. Israele rischia di diventare come il Sudafrica dell’apartheid”

Dopo due anni di guerra a Gaza e di migliaia di vittime civili, Israele si confronta con una frattura profonda: quella tra sicurezza e democrazia, tra consenso e dissenso. Mentre il governo Netanyahu consolida il suo potere, anche alla luce dell’eredità politica dell’accordo di Trump, l’attivismo civile cerca ancora uno spazio per esistere. In questo scenario, la testimonianza di Ishay Hasad – figura di primo piano dell’attivismo politico contro il governo Netanyahu e tra i fondatori del movimento Crime Minister – offre uno sguardo dall’interno su un Paese attraversato da proteste, repressione e domande aperte sul futuro della democrazia.

Lei è tra i fondatori dell’associazione Crime Minister. Può raccontarci com’è nato il gruppo e quali sono i suoi obiettivi principali?

Il movimento Crime Minister è nato quasi per caso, da una piccola protesta che abbiamo organizzato anni fa a Petah Tikva, vicino a Tel Aviv, contro la corruzione e contro il governo Netanyahu. All’inizio eravamo pochi, e la risposta delle autorità è stata durissima: cercavano in tutti i modi di fermarci. Ma non ci siamo lasciati intimidire. Abbiamo fatto ricorso alla Corte Suprema e, passo dopo passo, siamo riusciti a far sentire la nostra voce. Da lì è nata l’idea di creare un movimento vero e proprio: Crime Minister. Le prime manifestazioni a Tel Aviv, poi quelle a Gerusalemme, davanti alla residenza del Primo Ministro, hanno portato in piazza decine di migliaia di persone ogni settimana. È stato un periodo intenso, pieno di tensione con la polizia ma anche di grande energia civica. Per due anni abbiamo mantenuto viva la protesta, e credo che il nostro contributo sia stato decisivo nella caduta del governo Netanyahu. Quando è arrivato il governo Bennett abbiamo sperato in un cambiamento, anche nella proposta di limitare i mandati a due, ma purtroppo la legge non è passata. Poco dopo, Netanyahu è tornato al potere, questa volta con una coalizione estremista e religiosa che ha cercato di indebolire la Corte Suprema e i pilastri della nostra democrazia. Negli ultimi anni abbiamo continuato a scendere in piazza per difendere i valori democratici e sostenere le famiglie colpite da queste politiche. Oggi viviamo un periodo molto complesso, tra tensioni politiche, crisi sociali e un mondo che cambia rapidamente. È un periodo difficile, ma la società civile deve continuare a vigilare e a partecipare attivamente per proteggere i valori democratici.

È molto attivo nelle proteste pubbliche: organizza e partecipa a manifestazioni, trasmette in diretta tramite social come Facebook o Instagram, ed è stato arrestato in alcune occasioni. Quali erano le accuse a suo carico e in che modo la legge israeliana disciplina la partecipazione alle proteste pubbliche?

Negli ultimi anni in Israele sono state approvate leggi come la cosiddetta legge Shabbat, che conferiscono alla polizia poteri molto ampi. Purtroppo, alcune decisioni del governo e di ministri estremisti hanno ridotto l’indipendenza della polizia: invece di agire in modo neutrale per garantire la sicurezza dei cittadini, la polizia viene spesso usata per intimidire e arrestare chi protesta. Veniamo arrestati frequentemente: ci prendono, ci rilasciano, e i giudici non sempre ci danno ragione. Nonostante ciò, le nostre proteste non sono mai state violente. Tuttavia, cercano continuamente modi per fermarci e colpire chi guida le manifestazioni. Con l’entrata in vigore della legge Shabbat, la situazione può diventare ancora più difficile. Non sappiamo esattamente dove ci porterà tutto questo, ma c’è un rischio concreto che il governo tenti di trasformare Israele in un regime autoritario. Il mio primo arresto risale a quasi nove anni fa, durante una manifestazione a Haifa, senza alcuna motivazione valida. Da allora ho continuato a partecipare e organizzare proteste, e spesso siamo riusciti a far valere i nostri diritti grazie al sostegno dei cittadini. Ma purtroppo, la repressione sta peggiorando progressivamente.

 Il suo attivismo ha spesso utilizzato i social media per comunicare direttamente con il pubblico. Secondo lei, il giornalismo tradizionale sta riuscendo a raccontare correttamente le proteste e le tensioni politiche?

I social media sono fondamentali per chi, come me, vuole comunicare direttamente con le persone. Il problema è che i media tradizionali tendono a “normalizzare” tutto. Se non sei un attivista e ti limiti a seguire le notizie, puoi avere l’impressione che tutto sia normale, ma in realtà nulla lo è. I giornali e le televisioni mainstream spesso non raccontano la vera storia. La maggior parte dei canali principali trasmette notizie in modo “ragionevole”, ma con una forte inclinazione politica. Ad esempio, il Canale 2 e la pubblica televisione sono molto vicini al governo e spesso presentano i fatti in maniera parziale. Il Canale 14 è apertamente politico, e la sua copertura è fortemente orientata, senza approfondire le questioni critiche o le proteste. Questo vale anche per la stampa scritta: i giornali mainstream tendono a presentare la situazione come se fosse normale, minimizzando la gravità dei problemi politici e delle tensioni sociali. Per questo i social media diventano uno strumento indispensabile: permettono di raccontare ciò che realmente sta accadendo, senza filtri né mediazioni.

In Israele vivono circa due milioni di arabi che sono anche cittadini israeliani. Alla luce di leggi come la Legge sullo Stato-Nazione del popolo ebraico (2018) e della Nationality and Entry into Israel Law, lei ritiene che esista oggi una piena uguaglianza di diritti tra ebrei e arabi? Quali cambiamenti politici o legislativi sarebbero necessari per realizzare una cittadinanza realmente paritaria?

Ovviamente no. La piena uguaglianza di diritti tra ebrei e arabi non esiste. Se cittadini arabi, musulmani o israeliani si oppongono alle guerre o alle politiche del governo, rischiano di essere arrestati o addirittura uccisi più facilmente rispetto ad altri. La maggior parte delle persone accetta questa situazione come normale, e questo include anche giudici e istituzioni israeliane. Nei territori occupati, la situazione è ancora più grave: i diritti della popolazione palestinese non sono riconosciuti, vengono perseguitati, uccisi e costretti a fuggire senza che il governo offra alcuna protezione efficace. La soluzione dovrebbe essere politica e pacifica: io credo che solo la soluzione dei due Stati possa garantire un futuro stabile. Ma la maggior parte degli israeliani sembra preferire la comodità dell’indifferenza o del silenzio, ignorando che nei territori ci sono circa tre milioni di persone senza diritti istituzionali adeguati. Alla base di tutto c’è il razzismo.

In Cisgiordania e in Israele le divisioni etniche e religiose sono spesso profonde, e alcuni osservatori parlano di un vero e proprio colonialismo moderno. Secondo lei, quali passi concreti potrebbero favorire una convivenza reale tra israeliani e palestinesi, senza gerarchie di cittadinanza o discriminazioni sistemiche?

Il problema è molto complesso. La maggior parte delle persone su entrambi i lati, quando capisce che le soluzioni attuali non funzionano, si rassegna e cerca di vivere pazientando. Ma questa “pazienza” non risolve nulla. In Israele ci sono i coloni estremisti, religiosi e messianici, mentre dall’altra parte ci sono gruppi jihadisti. Con queste posizioni estreme da entrambe le parti, non vedo come si possano fermare i conflitti o trovare una soluzione concreta. È una situazione profondamente radicata e difficile da risolvere.

Come attivista impegnato per la democrazia e i diritti civili, quale significato attribuisce oggi all’idea di uno Stato palestinese?

Credo che bisognerebbe risolvere la questione dei collegamenti tra il West Bank e Gaza che attualmente sono divisi dalla terra israeliana. Potrebbero e dovrebbero essere collegati, magari da una strada o da un tunnel : sono meno di 40 chilometri di distanza tra le due aree palestinesi e quindi è tecnicamente è fattibile. Penso che questa possa essere la soluzione, anche se non sappiamo quanto tempo ci vorrà e quante vite saranno perse nel frattempo. La guerra religiosa non può durare per sempre.  All’inizio, il conflitto era soprattutto nazionale: i sionisti non erano religiosi, e c’era una vera disputa sulla terra tra gli ebrei e gli arabi che vivevano qui. Già all’inizio del XX secolo si cercava una soluzione, e nel 1948, con la decisione delle Nazioni Unite, Israele ottenne uno Stato. Da allora, però, i conflitti non sono mai finiti: nel 1967 i messianici ebrei cercarono di ottenere ancora più terra, e la situazione è rimasta complessa. Oggi la demografia gioca un ruolo importante. I palestinesi stanno diventando più moderni e hanno meno figli rispetto ai messianici ebrei, che spesso hanno famiglie molto numerose. In totale, ci sono circa 2 milioni di palestinesi a Gaza, 2 milioni di cittadini palestinesi in Israele, altri 4 milioni in Cisgiordania, per un totale di circa 8 milioni di palestinesi. Dall’altra parte, ci sono circa 8 milioni di ebrei. È praticamente uno scontro 50-50 sulla stessa terra molto piccola. Quindi sì, i palestinesi hanno pieno diritto a uno Stato. Come si arriverà a realizzarlo? Questa è una domanda aperta. Nessuno può dirlo con certezza. Possiamo solo sperare e cercare soluzioni pratiche e pacifiche.

Che ruolo può avere l’attivismo nel denunciare le disuguaglianze etniche e sociali senza essere percepito come anti-israeliano?

Quando critichi le politiche o denunci le disuguaglianze, spesso vieni etichettato come “anti-israeliano” o addirittura “antisemita”. Questo vale anche per chi è israeliano e un buon cittadino. Basta esprimere certe opinioni per essere considerato un traditore. Il problema non riguarda solo il governo, ma anche una parte della popolazione comune. Circa il 30-35% degli israeliani pensa che i palestinesi non meritino uno Stato e che non dovrebbero mai averne uno. È una mentalità radicata: ormai sono passati più di 50 anni dal 1967, e molte persone si sono abituate a questa realtà. La nuova generazione spesso non comprende la differenza tra Israele prima del 1967 e la situazione attuale in Cisgiordania. Per molti, tutto dovrebbe essere ebraico, senza spazio per la pluralità o per i diritti dei palestinesi. Denunciare le disuguaglianze in questo contesto è quindi un atto difficile, ma necessario.

Le operazioni israeliane contro Hamas vengono presentate dal governo come misure necessarie per la sicurezza nazionale. Lei ritiene che queste operazioni abbiano davvero aumentato la sicurezza del Paese?

Al contrario, penso che abbiano ridotto la sicurezza di Israele. Negli ultimi 30-40 anni, Israele ha perso popolarità a livello internazionale, ma oggi la situazione è peggiore che mai. Questo è molto negativo per noi: Israele non può sopravvivere isolato dal resto del mondo, dovrebbe essere un Paese moderno, collaborare con tutti i Paesi sviluppati. Altrimenti rischia di diventare come il Sudafrica sotto l’apartheid, e ciò minaccia la sua stessa esistenza. Riguardo ai palestinesi, l’organizzazione di Hamas è un gruppo di fanatici che educa e radicalizza le persone. La situazione diventa quindi uno scontro tra estremisti: da una parte Hamas, dall’altra gli estremisti messianici israeliani. La maggior parte degli israeliani vive in condizioni confortevoli e non vuole affrontare la realtà sul terreno: pensano di poter controllare i palestinesi all’infinito, ma non è così. Queste operazioni militari non risolvono il problema. Al contrario, alimentano ulteriormente l’estremismo, indeboliscono la sicurezza e peggiorano l’immagine di Israele nel mondo. Lo si vede anche nelle manifestazioni internazionali, come quelle pro-palestinesi anche in Italia: le operazioni militari aumentano il risentimento e la tensione globale, e quindi la sicurezza reale del Paese diminuisce.

Lei è anche produttore televisivo e doppiatore nel cinema. Secondo lei, il settore culturale e mediatico può avere un ruolo attivo nel promuovere la convivenza tra le comunità, la democrazia e i diritti civili in Israele?

Ci stiamo davvero impegnando, ma la realtà è difficile: molte persone non sono aperte a questo tipo di messaggi. Gli estremisti, in particolare, rifiutano qualsiasi dialogo. Io stesso non sono un estremista, ma in Israele, se parli di pace o di diritti civili, vieni facilmente considerato un traditore o un estremista. Questo vale anche per gli artisti: attori, cantanti, persone del settore culturale spesso hanno paura di esprimere le loro opinioni su temi politici o sociali. È una situazione che non è affatto naturale in una democrazia perché limita la libertà di parola e la capacità del settore culturale di promuovere convivenza, democrazia e diritti civili.

Gli Stati Uniti hanno sempre avuto un ruolo centrale nel processo di pace in Medio Oriente, e l’accordo di Trump ne è un esempio evidente. Come valuta oggi l’influenza americana in Israele e nei territori palestinesi? ? E quale ruolo pensa possa avere oggi l’Europa nel processo di pace tra israeliani e palestinesi?

Trump è un personaggio imprevedibile, un folle e tutti lo sanno. Ha preso il controllo della destra e di Netanyahu e oggi Israele sembra quasi una colonia degli Stati Uniti. Ci sono simboli, bandiere, ma vedremo cosa succederà nei prossimi giorni e a Sharm El Sheik. Per anni abbiamo capito che Israele non avrebbe lasciato volontariamente i territori occupati. Forse ora la pressione esterna potrebbe costringerci a fare passi concreti verso la pace. Sarà molto difficile, ma forse è l’unica possibilità che possa funzionare. È un prezzo da pagare, e dobbiamo vedere come evolverà la situazione. Per quanto riguarda l’Europa, credo che stia facendo tutto il possibile, ma potrebbe fare di più. La pressione internazionale è necessaria: finché gli israeliani possono muoversi liberamente e senza conseguenze, difficilmente ci saranno cambiamenti. Per troppi anni si è parlato, si è discusso, ma la situazione è rimasta invariata, e in molti casi è peggiorata.

11. Pensa che le proteste avvenute a livello internazionale abbiano contribuito a trovare una stabilizzazione del conflitto? Ha inoltre contatti con attivisti italiani o europei?

No, al contrario. Per la maggior parte degli israeliani queste proteste non sono state percepite come un segnale positivo; anzi, le disprezzano. Dicono che non sono giuste, considerano filo-palestinesi chi le sostiene e spesso non comprendono la situazione reale. Va detto però che lo scopo di queste manifestazioni non è convincere gli israeliani, ma fare pressione sui loro governi. In teoria dovrebbe servire a influenzare le politiche israeliane, ma negli ultimi 40-50 anni i risultati sono stati deludenti. Si parla molto, si discutono le cose nelle altre stanze del potere, ma alla fine quasi nulla cambia. Quanto ai contatti con attivisti italiani o europei, non ci sono collegamenti diretti. Potrei dialogare con attivisti australiani o inglesi, ma collaborare apertamente con chi organizza raduni anti-israeliani in Europa potrebbe farmi perdere visibilità qui in Israele. Nonostante questo, continuo a sostenere da anni la mia posizione: due Stati. È ciò che ripeto sempre, e spero che alla fine il popolo israeliano e i palestinesi lo capiscano.

Interprete: Simone Conti.

L’autrice: Giuliana Vitali è giornalista e scrittrice. E’ appena uscito il suo “Nata dall’acqua sporca” (Giulio Perrone editore)

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