In questi giorni del 1939 l’Europa trascorreva le ultime settimane di pace mentre i preparativi di guerra erano ormai palesi. Adolf Hitler, che aveva già pianificato l’attacco alla Polonia, cercò il sostegno nel dittatore italiano, ma la risposta – apparentemente positiva – poneva una condizione: l’Italia sarebbe entrata in guerra al fianco dell’alleata se le fossero state fornite materie prime necessarie allo sforzo bellico.
L’adesione alla politica tedesca, ma dall’altra si poneva una condizione molto difficile, per non dire impossibile, da realizzare. Come quel 5% di armamenti Nato.
La «lista del molibdeno»
Dopo la firma del ‘patto d’acciaio’ nel maggio 1939, Galeazzo Ciano, ministro degli esteri e genero del duce, incontrò Adolf Hitler nella residenza estiva di Berchtesgaden il 12 agosto: nella tranquillità delle Alpi bavaresi Hitler annunciò al ministro italiano la decisione di risolvere definitivamente entro pochi giorni la ‘questione di Danzica’, ovvero riannettere la città al Reich a vent’anni dal trattato di Versailles, ricorrendo alle armi e scatenando una guerra con la Polonia, tanto più che – secondo Hitler – quest’ultima stava suscitando incidenti alla frontiera.
Benchè fosse vero il contrario, perché in realtà era semmai la Germania a provocarli, questo intervento militare avrebbe significato l’applicazione del ‘patto d’acciaio’ facendo entrare in guerra anche l’Italia. Da una parte tutti i pazienti tentativi di mediazione italiana sulla questione di Danzica – condotti anche attraverso la Santa Sede – furono vanificati in pochi minuti, ma assai peggiore era la certezza della guerra.
La seconda mossa tedesca – della quale certamente Ciano conosceva l’essenza, ma non forse tutti i dettagli – fu la firma del patto di non aggressione con l’Unione Sovietica il 23 agosto, accordo che implicava la spartizione della Polonia e soprattutto costituiva un ulteriore passo verso il conflitto.
A Roma si scatenò il panico: a parte la sgradita sorpresa dell’interpretazione ‘automatica’ fatta dai tedeschi delle clausole del patto, ci si rese anche conto che nel trattato non erano stati definiti gli obiettivi comuni della guerra, né erano stati fissati limiti alle reciproche contribuzioni per la condotta della guerra stessa.
Gli armamenti impossibili
Mussolini, per sfuggire alla tagliola che lo intrappolava, ricorse ad uno stratagemma degno della miglior tradizione italica: su suo ordine Ciano fornì all’ambasciatore a Berlino Bernardo Attolico un’ampia e articolata lista di rifornimenti indispensabili per scendere in guerra al fianco dei tedeschi. Per sottrarsi alla ‘chiamata alle armi’ furono così richiesti circa diciassette milioni di tonnellate di materiali strategici, armamenti e materie prime per trasportare le quali sarebbero stati necessari almeno cinquanta treni giornalieri per la durata di un anno.
Tra tutti questi materiali comparivano anche seicento tonnellate di molibdeno, un metallo raro quanto fondamentale per migliorare la qualità dell’acciaio nell’industria degli armamenti e che finì poi da solo per dare il nome alla lista. In effetti le forze armate italiane erano appena uscite da due conflitti (in Etiopia e in Spagna) che, oltre alle perdite umane, avevano consumato le scorte e svuotato i magazzini e questo era noto anche agli alleati d’Oltralpe che però rimasero comunque sbigottiti di fronte all’enormità della richiesta che comprendeva anche sei milioni di tonnellate di carbone, quattro di petrolio, fosfati, glicerina e tanto altro.
Al Führer non rimase che esprimere il proprio dispiacere dichiarando che «per ragioni tecniche e organizzative» non poteva esaudire la richiesta italiana, né pretendeva una collaborazione nel conflitto imminente. Tra le probabili conseguenze dello sconcerto tedesco di fronte all’esorbitante richiesta, sembra vi fu anche lo spostamento della data fissata per l’attacco alla Polonia che dal 26 agosto fu fissata al 1° settembre.
La fiducia si incrina
Per il dittatore tedesco si trattò di ingoiare un boccone amaro. La reazione di Adolf Hitler fu furibonda e del resto gli scoppi d’ira del dittatore nazista erano noti, come nel caso in cui, nel corso di un colloquio con il cancelliera austriaco Schuschnigg, aveva spazzato via dalla scrivania tutti gli oggetti presenti e pestato i piedi sul pavimento: l’accusa che subito fu lanciata contro l’Italia fu di essere una ‘traditrice’, come era accaduto nel 1914, quando l’Italia non era entrata in guerra a fianco delle alleate Austria e Germania.
Il tema era pericoloso e non tutte le comunicazioni tra i due dittatori furono diffuse integralmente, soprattutto alla stampa che ricevette solo brani ‘ufficiali’ diversi a seconda delle rispettive opinioni pubbliche. Una certa irritazione tuttavia rimase ancora per un certo periodo: in una comunicazione nel marzo 1940 Galeazzo Ciano ringraziò nuovamente Il ministro Ribbentrop per la sensibilità dimostrata dal Führer nella «delicata questione».
Nel frattempo però l’ambasciatore italiano a Berlino non potè esimersi dal segnalare a Roma che in città, come riportavano i suoi informatori, si stava diffondendo un crescente sospetto: «Le parole tradimento e spergiuro ricorrono con frequenza». Fu inventata allora la «non belligeranza», perché l’espressione «neutralità» sembrava poco combattiva, né consona al regime. Mussolini infine, per dichiarare guerra a Francia e Inghilterra, attese fino al 10 giugno 1940, senza ripianare le scorte e non accumulando materie prime, ma semplicemente convinto che sarebbero bastate «poche centinaia di morti per sedersi al tavolo della pace».
30/06/2025
dda Remocontro