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L’Uragano Melissa che devasta i Caraibi e l’immobilismo globale: così stiamo perdendo la sfida climatica

L’Uragano Melissa che devasta i Caraibi e l’immobilismo globale: così stiamo perdendo la sfida climatica

Ambiente

31/10/2025

da Valigia blu

Redazione

“Non esiste infrastruttura in questa regione che possa reggere un uragano di questo tipo”, sono state le prime parole del primo ministro della Giamaica Andrew Holness. L'uragano Melissa che ha colpito la Giamaica in questi giorni è il più forte mai registrato tra quelli che si sono abbattuti sull’isola nei suoi 174 anni di storia e uno dei peggiori uragani di sempre nel bacino atlantico sia in termini di pressione che di velocità del vento, riferisce un articolo di Associated Press. Le alluvioni hanno “intrappolato le famiglie nelle loro abitazioni senza che le squadre di soccorso fossero in grado di aiutarle”, mentre “i venti hanno sradicato i tetti degli edifici e fatto volare massi sulle strade”, ha affermato Desmond McKenzie, vice presidente del Consiglio giamaicano per la gestione dei rischi di catastrofi.

La prima città a essere colpita è stata New Hope, nuova speranza, quasi un simbolo dei nostri tempi. Quando ha toccato la Giamaica, con venti di 295km/h e la pressione centrale di 892 millibar, l’uragano era stato classificato come categoria 5, prima di essere declassato a categoria 3 man mano che si spostava verso le altre isole, Cuba e le Bahamas. 

“È stato un uragano straordinario, una vera e propria bestia”, ha dichiarato Phil Klotzbach, ricercatore della Colorado State University. La pressione, la misura chiave utilizzata dai meteorologi, ha eguagliato quella dell'uragano del Labor Day del 1935 in Florida. La velocità del vento ha eguagliato quella dell'uragano del 1935 e dell'uragano Dorian del 2019, hanno spiegato sempre Klotzbach e Brian McNoldy, dell'Università di Miami.

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Con una previsione di mareggiate pericolose per la vita fino a 4 metri, le autorità erano preoccupate per gli ospedali lungo la costa. McKenzie ha detto che quattro ospedali principali sono stati danneggiati e uno di questi ha perso l'energia elettrica, costringendo le autorità a evacuare 75 pazienti. A Kingston, le autorità hanno avvertito la popolazione di fare attenzione ai coccodrilli che potrebbero essere stati allontanati dal loro habitat a causa delle inondazioni.

“Quando il vento ulula, sembra che il mondo stia crollando”, ha detto ad AP Gavin Fuller, 15 anni. “Il rumore è incessante. La gente è ansiosa e cerca solo di resistere fino a quando la tempesta non sarà passata”, ha aggiunto Colin Bogle, consulente di Mercy Corps.

È ancora troppo presto per stabilire l’entità dei danni e non ci sono ancora valutazioni attendibili sulle vittime causate dall’uragano. Prima che l’uragano si abbattesse sull’isola, la Federazione internazionale delle società della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa aveva avvertito che avrebbe potuto colpire 1,5 milioni di persone.

Non c’è praticamente alcun dubbio che il riscaldamento globale ha reso l’uragano Melissa così forte, riporta New Scientist. “Le acque calde che hanno alimentato la sua intensificazione erano da 500 a 700 volte più probabili a causa dei cambiamenti climatici”, hanno spiegato Daniel Gilford e i suoi colleghi di Climate Central, un'organizzazione no profit statunitense. 

Un uragano si forma quando l'aria calda e umida sale dalla superficie dell'oceano e crea un sistema rotante di nuvole e tempeste. Al centro, l'aria scende, creando l'occhio, una zona calma e priva di nuvole circondata da un muro di venti violenti e pioggia noto come parete dell'occhio.

Le origini di Melissa risalgono a una serie di temporali al largo della costa dell'Africa occidentale a metà ottobre. Il 21 ottobre aveva raggiunto la forza di una tempesta tropicale e il 26 ottobre era diventato un mostro di categoria 4 che si è abbattuto sul Mar dei Caraibi.

Quest'anno le temperature dell'oceano nei Caraibi sono insolitamente elevate, 1,4 °C superiori alla media stagionale, e gli uragani si alimentano proprio di quello strato di acqua calda. Queste condizioni hanno permesso a Melissa di intensificarsi rapidamente.

“L'oceano è più caldo e l'atmosfera è più calda e umida a causa dei cambiamenti climatici. Questo favorisce fenomeni come la rapida intensificazione [con un aumento molto rapido della velocità del vento], una maggiore intensità di picco e un aumento delle precipitazioni”, spiega alla BBC Brian McNoldy, ricercatore senior presso l'Università di Miami. 

“Si è verificata una tempesta perfetta di condizioni che hanno portato alla forza colossale dell'uragano Melissa”, aggiunge Leanne Archer, ricercatrice associata in condizioni climatiche estreme presso l'Università di Bristol.

A rendere più catastrofiche le conseguenze c’è poi la lentezza degli uragani. Sebbene la velocità del vento sia incredibilmente alta, il movimento della tempesta è notevolmente lento. Martedì Melissa si muoveva verso ovest a circa 5 km/h, più lentamente della velocità di una persona che cammina.

Questo significa che un uragano può portare pioggia in un unico luogo per giorni e giorni, causando ripetute ondate di pioggia, inondazioni e danni causati dal vento. Uno degli esempi più famosi è l'uragano Harvey del 2017, che si è fermato su Houston, negli Stati Uniti. Harvey ha scaricato 100 cm di pioggia in soli tre giorni, causando inondazioni catastrofiche.

“Immaginate un metro di pioggia che cade su un intero bacino e che poi viene convogliato in una rete fluviale. Quando raggiungerà le parti più basse di quella rete di drenaggio, si formeranno metri e metri di inondazioni. Questo fa pensare che le inondazioni provocheranno probabilmente una grande perdita di vite umane”, spiega Fred Thomas, ingegnere informatico ricercatore presso l'Environmental Change Institute dell'Università di Oxford.

“La questione ora è la velocità della ripresa”, osserva ancora il primo ministro giamaicano Holness. Secondo il Financial Times, “gli investitori si aspettano di pagare fino a 150 milioni di dollari alla Giamaica, poiché la gravità dell'uragano Melissa fa scattare l'assicurazione ‘catastrophe bond’ per aiutare il paese a riprendersi”.

Sono anni che i leader dei Caraibi e degli Stati insulari, tra i paesi al mondo più vulnerabili e i più esposti agli effetti del cambiamento climatico, affermano che “i paesi più poveri del mondo saranno quelli che soffriranno maggiormente i cambiamenti climatici, nonostante siano i meno responsabili”, e chiedono ai paesi ricchi del mondo, le cui emissioni di gas serra nel corso delle generazioni hanno alimentato il riscaldamento dei mari e l'intensificazione dei fenomeni meteorologici estremi, di aiutarli ad affrontarli.

Secondo il Fondo Monetario Internazionale, i Caraibi sono la regione più esposta al mondo ai disastri causati dal clima e necessitano di circa 100 miliardi di dollari di investimenti economici per rafforzare il loro adattamento ai cambiamenti climatici. 

La Banca interamericana di sviluppo ha riscontrato che, all'indomani di gravi tempeste, i livelli di indebitamento dei paesi caraibici sono superiori del 18% rispetto a quanto ci si aspetterebbe in condizioni normali.

Da anni Mia Mottley, prima ministra delle Barbados, sta cercando di mobilitare i leader degli Stati più grandi e ricchi per sostenere riforme presso le più grandi istituzioni di credito mondiali, come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale, come la sospensione del rimborso del debito mentre i paesi più poveri si riprendono dai disastri.

“Il fatto che siamo più preoccupati di generare profitti che di salvare le persone è forse la più grande condanna che si possa fare della nostra generazione”, aveva affermato nel 2022 durante la conferenza dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. “L'ordine globale non funziona. Non garantisce la pace, la prosperità o la stabilità. Le parole dei partenariati globali sono vuote, i partenariati stessi sono blandi, corrotti dall'avidità e dall'egoismo, e rimangono fondamentalmente squilibrati. Il mondo è purtroppo segregato tra coloro che sono venuti prima e a cui immagine è ora impostato l'ordine globale, esso stesso semplicemente l'imbalsamazione del vecchio ordine coloniale che esisteva al momento della creazione di queste istituzioni”. 

L’unica strada possibile, aveva concluso Mottley, è ripensare i criteri di erogazione dei fondi che finiscono per arricchire chi è già ricco e indebitare chi è già indebitato.

Tra una settimana, i negoziatori di tutto il mondo si riuniranno in Brasile per il vertice annuale delle Nazioni Unite sul clima. I negoziati sono sempre più dominati dalla questione dei finanziamenti. Le Nazioni Unite hanno pubblicato studi che dimostrano che i paesi in via di sviluppo hanno bisogno di oltre mille miliardi di dollari all'anno sia per allontanare le loro economie dai combustibili fossili inquinanti che causano il cambiamento climatico, sia per adattarsi ai cambiamenti già in atto.

Durante i colloqui dello scorso anno, i paesi ricchi hanno accettato di contribuire con 300 miliardi di dollari all'anno al raggiungimento di questi obiettivi, anche se gran parte di tale somma dovrebbe essere erogata sotto forma di prestiti. Solo una piccola parte di quel denaro è stata destinata specificamente alla preparazione e al recupero in caso di catastrofi.

Nel 2021, i paesi ricchi hanno accettato di raddoppiare l'importo destinato all'adattamento nei quattro anni successivi, che ammonterebbe ad almeno 40 miliardi di dollari all'anno entro il 2025. Tutti i segnali indicano che questo impegno non sarà rispettato.

In una delle sue prime azioni dopo l'insediamento alla Casa Bianca, il presidente Trump ha impedito agli Stati Uniti di destinare fondi per aiutare i paesi vulnerabili a prepararsi alle minacce del riscaldamento globale. Da allora, l'amministrazione ha smantellato praticamente tutti i programmi di aiuti esteri e gli uffici che lavorano con i paesi poveri e altri che lottano per far fronte ai disastri.

“In momenti come questo ci si rende davvero conto che c'è un vuoto e una mancanza di leadership”, commenta Michai Robertson, consigliere senior dell'Alleanza dei piccoli Stati insulari, originario di Antigua e Barbuda. “Non solo i paesi ricchi si stanno ritirando dalla lotta al cambiamento climatico, ma non ci ascoltano”.

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